domenica 19 giugno 2022

Su "Novecento ai confini" (Campanotto) di Elio Grasso. In forma di lettera.


 

Caro Elio ho tardato a rispondere al tuo messaggio privato, con la lettera di Biancamaria su questo tuo libro,  spero che non ti sia dispiaciuto. Da tempo avevo scritto degli appunti, dopo la lettura. Presi annotati e poi abbandonati, come molte cose in questi anni, difficili per me e pieni di cenere.

Sotto è rimasta sepolta anche nota,  stanco di scrivere inutilmente per me, o di mettere solo su Facebook le cose. Ora la morte di Biancamaria mi spinge invece a risvegliare il torpore e curare meglio i legami che contano, cosa che ho sempre fatto maldestramente, e ne sento il peso. 
Ora,  per quel poco  - che siano due mesi  o vent’anni, sarà sempre poco - che mi resta da vivere spero di aver imparato a fare meno danni.  Gli ultimi due anni hanno davvero la marca di “confine” – forse del XXI secolo seguito al nostro 900 che è finito – con questa guerra europea – lui si davvero dopo breve esistenza. Ora si apre un secolo diverso, un’ altra epoca, non serve più contarlo  con le vecchie misure. 
Vorrei scriverla in forma di lettera questa recensione e lascio anche qui note personali, perché la poesia per me sta dentro un solco di ricerca di senso sia letterario che esistenziale, come in qualche modo insegna un compagno di strada come Emanuele Trevi.


E vengo al tuo libro, “Novecento ai confini” pubblicato da Campanotto, anche esso saldo col suo archivio e con i suoi tanti poeti nella storia del 900, sebbene sia attivo anche in questi anni recenti
Il “novecento” dunque. Lo definisco “nostro”, per  introdurre quello della tua scrittura che ha deciso di metterlo come sigillo (come fece un poeta che so che anche tu ami e consideri, come Aldo Nove figlio di quel tempo di sogni e illusioni e grandi progetti "di pianura" per i nostri genitori di paesi, di colline e montagne o terre distanti).

 Noi che siamo figli del ‘900, sappiamo cosa sia un secolo che finisce: il XX fu l’ultimo in cui s’è ragionato in termini di Tempo, perché lo abbiamo alla fine abolito, cancellato per come lo conoscevamo: Proust e Bergson l’hanno avviato e prima reso fluido, Heisenberg, Einstein, e oggi gli sviluppi della teoria dei Quanti ne hanno poi abolito ogni ordine e falsa ontologia (ci resta quello convenzionale per puro orientamento). Per questo i due anni passati sembrano moltissimi, sulle spalle, specie le nostre che già dovevano sostenere un peso dell’invisibile, il peso aleatorio di una scomparsa d’epoca che sempre più sappiamo solo noi. Lo dico come Vasco Rossi, perché pure lui, figlio del 900, ha dentro qualcosa di simile alle nostre ombre  – e spero l’accostamento non sia per te ruvido io lo considero uno spirito comune.

Si, caro Elio – dato che anche noi due, per certi aspetti come altri del secolo ( che non nomino per pudore) in tanti anni non ci siamo MAI incontrati, sebbene intensi, anche se radi i contatti ci sono stati per mail, messaggi, recensioni (le tue molto generose)

Ora questo tuo “Novecento ai confini”   mi parla diretto, come dentro una fratellanza di ombre. Ha molteplici e variegati sentieri di significati, io voglio leggerci i miei, leggerci le consonanze di un’epica di sogno dentro la storia, ci trovo una certa epistemologia malinconica della realtà, distanza di sguardo ma dentro una vibrazione di fantasmi, memoria e ma pure tutto il ferro della grande storia.

I tuoi temi li affronti da poeta lirico, che più che invadere di “io” fa un movimento inverso, di accoglienza: c’è un soggetto, nei versi, ma è più coro, nella forma di chi raccoglie “in sé” anche molta di quella eredità letteraria ( di cui sei profondo conoscitore come pochi, come si vede nella tua incessante militanza di saggista) ma completamente immerso nel presente. Lo ricorda anche Paolo Valesio nell'introduzione. 

Veniamo ai temi: questo tuo libro di un lirico è pure quello di un geografo di psichismi, che sono l’aura di un ‘epoca in cerca di un narratore cieco e di un’epica. Ne troverà geologie nei suoi labirinti, ma l’incipit del libro è in quel verbo morbido del passato (“Era)  che ritorna nell’ultima poesia. Nel mezzo un serpente, come un fiume di occorrenze e ripetizioni. Importante l'imperfetto - lo scrive un poeta che è stato fondamentale per me e so che tu anche lo ami, Cesare Viviani che nel suo ultimo libro scrive dell' "imperfezione del passato" ma pure della sua perfezione - e di solito così severo, mi perdonerà pure questo mio tono, visto che scrive nella penultima poesia "Un quello sciocco intimismo/ c'era pure del buono".

E vengo allora al passato di questo tuo novecento e nostro.

“Era candido l’amore/ e volenteroso di virtù”  i primi due versi, siamo già nel cuore dell’impresa di quella folla anonima di contadini per lo più, o gente semplice e impoverita dalla  guerra a stento capaci di parlare e dire i sentimenti di cui i figli avrebbero avuto bisogno, avventurati in un futuro rapido nel cambiare. Ma ebbero una volontà di impulso progressivo, lo stesso che li ha gettati nel fare famiglia, nel lavoro e a volte anche nelle guerre a fare i soldati semplici e ignoti.

 Nell’ultimo componimento del libro, allo stesso candore, scrivi,  restano invece “cimeli” che “risalivano dal mare” lungo la dorsale d’acqua.  Il disastro storico è tuttavia già preconizzato nella  chiusa della poesia d’apertura: “Volenterosi desideri ancora oggi/nel seme della storia/con sempre meno alberi di valle”. E’ già chiaro qui come tu proceda, per quadri e immagini, per cornici dentro cornici. La folgorazione verticale dell’imago, delle analogie, si compone in un procedere orizzontale. E’ la storia che si dispone davanti a noi come un paesaggio, dentro cui camminare, oggi faticoso, paesaggi di residui se non di distruzione.

Il nucleo bruciante, il motore che resta, è più che un’idea,  una pulsione: lo sforzo dell’andatura viva che va, del fluire materico dentro la storia tra biologia e società. “Verso la foce”  a fare da motore è “la coppia” , un nucleo che agisce. Strumento (inutile dire: umano) è quell’ “aggiungere anni/alla vita” che “ avrebbe spostato / confini”: ecco dunque che la storia procede da biologia ripetuta, in generazione dunque, viandanza, e per genìa, per dirla con la nostra amata Biancamaria Frabotta di cui hai appena scritto, e che ci ha lasciati orfani di luce. 

Vita e storia coincidono nell’impulso di fiducia e amore, carnalità di corpi familiari, accudenti, lavoratori, migranti, come lo furono internamente tanti uomini e donne. Al di là delle ideologie che li incanalarono, per loro fare storia era fare famiglia. Ma ben diverso da letture engelo-marxiane, o catto-salviniane per essere ad oggi. No, l’opposto.

il Secolo del “seme” è stato (demografia, popolo, figli, futuro, ma oggi clonazione, fecondazione tecnologica, calo delle nascite) dove si coglie una frattura. Un pianto, certo. Sei a Genova, Caproni è intorno a te.

Questo secolo così come ci ha generato ci ha fatto però  “figli dissimili” , come definisci con un lampo la tua, direi forse la nostra generazione. Dissimiglianza di singolarità impolitiche perdute ormai, slegate.

 Poesia lirica dunque ma senza “io”, non solo per “pudore” come suggerisce nell’introduzione Paolo Valesio, ma anche, credo, per volontà di lasciar aggregare dall’immagine singolare, dal mosaico lessicale, dall’analogismo dello stile alto del 900, un paesaggio del “noi” dentro cui collocare la singolarità che faceva parte di una comunità (si rimanda sparso nei versi a legami pre-ideologiche, pre-culturali (il mondo naturale di un’Italia terribile, altro che mito dell’innocenza di Pasolini,  che ha fatto però un balzo enorme tra civiltà contadina e industriale tanto che a un certo punto della storia quei bambini scalzi degli anni ‘30, come scrivi con sintesi efficace, si sono trovati adulti nella “contrada” che “contiene/ tutto il silenzio sotto i satelliti”.

E’ quel momento degli anni 60 a fondere in modo irripetibile arcaicità e conquiste spaziali in un solo slot epocale. (come in un ‘immagine gli anelli dei pianeti si sovrappongono a fedi nuziali). Ribadisco, ne faccio una lettura quasi storicizzante, ma le tue poesie sono molto di più, aprono a una pluralità che quasi rimanda ad un procedere misterioso e pur concreto della catena dei versi.

Io leggo in alcuni versi come:  “Asperità di anni, forse piogge/dissennate o partenze memorabili, da una casa/ all’altra, poi silenzi postali” un processo di trasformazione, spostamento e distanziamento dall’origine, strappo, che fu favola e storia, lotta, battaglia privata di sopravvivenza, necessità, ma pure destini comuni a tutti. Almeno per un tratto di storia, prima della cancellazione.

Questa tua poesia lirica è una poesia narrativa, ma nella forma di un mormorio ombroso, lampeggiante, sotteso di senso, liquido dentro i fatti duri della realtà. L'acqua, del resto è una delle componenti essenziali e già descrive un movimento progressivo. Il “fiume” che dai monti va “verso la pianura” e va verso “il mare” o verso più ancora la “laguna” nei tuoi versi che lampeggiano storie e dislocazioni.  E’ la “misura” del “secolo” della fisicità, forza-vapore di una spinta vitale dei corpi, la Storia è un lavoro di braccia che scavavano uno spazio oltre i confini per “sottrarsi alla morte”

Poi i corpi lo hanno sperimentato, questo secolo, nelle guerre e nei tanti movimenti politici, di lotta, di lavoro e  di pace e di costruzione o di divertimento (ricorrono nel tuo  Novecento le “feste”).  Questo era “l'ardore”  di cui parli a un certo punto nella prima poesia, mi sembra di individuarlo come un puntello forte, in questa trama di analogie, che spinge oltre la storia, è sempre un’ulteriore, un’utopia senza ideologia, attitudine esistenziale a conquistare a morsi la vita. Li vedo trasfigurare nel bianco, uomini e donne che silenziosi (noi figli i primi a studiare, a volte i primi a saper scrivere e dire in italiano)  sono stati protagonisti in questa loro spinta, come l'acqua che si dirige verso un fiume e il fiume al mare. Spinta di un’utopia senza per loro traduzione in un linguaggio, messo poi da altri, ma in loro un concentrato di amore volenteroso e sfida, fame di futuro. Questa nel libro indichi come “eredità acquisita” di questa spinta e la dici con l’immagine di “barche/fraterne facili allo slancio/ prima del tramonto”.

Slancio, parola chiave.  Se “nel secolo scorso era il seme”, esso ha prodotto un amore per la vita che era gettare oltre la linea del suolo oltre il presente. Quel “che dopo non è più stato ma vicino /all'immortalità” dici da subito. Era dunque una fortissima spinta al “varco” altra tua parola chiave, su cui convergono assieme la simbologia di Montale e il concetto spaziale di Fontana, ma comprendiamo anche meglio, pur nella tua costruzione rarefatta nei cristalli di associazioni analogiche, che questo varco era un nascere alla storia, un andare oltre che nessun discorso della metafisica saprebbe esaurire e che è compito della poesia contrarre in immagini espansive e sintagmi di senso inesauribile. Tu scrivi che la “breccia della poesia” è questo non saper “cuocere diverso cibo/ dal sogno ma è caldo profitto/ senza l’ansia delle discipline”.

mi ritrovo molto in questa idea che dentro il Novecento delle masse, della politica, delle ideologie e discipline e saperi (antropologia psicoanalisi sociologia) ci sia un’onda lunga ben diversa, uno spirito dell’epoca che ha radici profonde e altrove.

 E’ poesia dell’epoca, la tua, di un tramandato materico corporale umido materno. Il cuore di ciò che poi è diventato movimento storico, tu ne cogli l’alba essenziale, come Caproni in certi momenti apparentemente minimi, un Caproni diverso da te, ma traduttore di Char e secondo me tu stai tra le loro “due rive”.

C'è stato un aspro lavorio di adattamento dell'esistere a placarsi occorreranno anni seconda infanzia e nuove generazioni a fare a compiere il secolo a dare la misura di questa vita spesa e dispendiosa, in termini di energie vitali. Un percorso fatto di “miraggi” e “sortilegi” e “miracoli” insomma una successione di eventi connotati da extra-temporalità, a ribadire il connotato di un’utopia non ideologica ma vitale (la apparento, forse per quel “sortilegi” a il senso della Storia di Elsa Morante) quell’apertura “ di porte sui sentieri” o la “fuoriuscita tutti per come ci appaiono adesso, dentro questa saturnina “nostalgia dell'acqua” vista dall’oggi.  Ora che “l’aria di fa nera” proprio la verticalità del tuo fare poesia è un viaggio a ritroso e in avanti per usare “solo degne parole” custodite. Al termine di questo lungo “transito d’amore” e “consegna di scapole gracili agli anni” (ancora il tritacarne dei corpi in questo secolo). C’è un apparire di “epoche stremate” alla fine del libro consegnato a varie immagini, che sono come successioni oniriche, scrivi che “trasmigra il sogno/ per non finire l’infanzia/ in nome di malfidate apparenze”. 

Lascio senza forzare interpretazioni questa mia scelta di tuoi cristalli che forse lo è già, una della possibili. Lascio aperto l'intendere come e dove “divaga la stirpe”, dove sia “l’accaduta presenza/del tempo nei dirupi”. 

E’ un ‘apertura che bisogna intendere, al futuro, così è stato quel passato di “giorni felici” beckettianamente. In quel maestro del 900, alla fine di tutto il suo grattare crudelmente la superficie del canto disperato di Winnie una forma di resistenza c’era. Tu sei più lirico, guardi a un tono più alto, rilanci in qualche modo giurando fedeltà a una “fede/ per la gloria dei meriggi” una parola che suona da talismano per un poeta ligure. Non è citazionismo tuttavia, è materia reale, sono paesaggi aperti sia reali che allegorici, “assolati, espansi, interminati” di questa vita e luce abbiamo necessità che ci accompagni (la consapevolezza dura e atroce di Celan) “fino alla radura della cenere”.

Cenere che come scrivevo all'inzio, mi è sempre più polvere familiare.
Prima di quella però, caro Elio, spero sempre di conoscerti di persona, anche se certo molto mi sembra di conoscere di te nei tuoi versi. Con tanto affetto e stima

Mario

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