sabato 28 settembre 2019

ANTONIO IOVANE "Il brigatista" (Minimumfax)





Al centro del romanzo c’è Jacopo Varega, terrorista delle BR arrestato – siamo alle prime pagine – sulla spiaggia di Castelporziano nel 1979 proprio durante I giorni del mitico Festival di Poesia. Varega è un uomo d’azione, ma nel partito armato c’è arrivato per un labirinto di ragioni interiori, in cui la poesia ogni tanto affiora come pensiero dell’Irriducibile, come del resto è il suo pensare ideologiche abbraccerà, così sarà lui stesso, o almeno così sembra.

Catturato, Riuscirà a fuggire e contatterà una giornalista, Ornella Gianca che ha filmato la scena del suo arresto per una tv privata. A lei vuole raccontare la sua storia, o meglio vuotare il sacco, perché Varega ha capito che qualcosa è andato storto, che c’è stata una rottura, forse di patto, un tradimento. Un infame. O forse no, forse è che tuttala storia è stata sbagliata.
La lunga confessione davanti alla telecamera permette a Varega – e a Iovane - di strutturare il racconto in capitoli, gli anni di piombo scanditi, quelli cruciali, che ripercorrono la sua evoluzione di rivoluzionario, da lavoratore in fabbrica a uomo col mitra. Intorno altri personaggi, coprotagonisti o comparse: Irene, rigida compagna di lotta armata, di cui Jacopo resterà vanamente innamorato fin dall’inizio e nonostante il sesso, lei sarà sempre un muro. Ci sono tra I terroristi evocati anche I veri appartenenti alle Br (Cagol, Curcio Franceschini ecc.) perché il romanzo innesta una storia di finzione ma verosimile incastrata nella storia vera, da Piazza fontana al rapimento Moro. Dall’altra parte ci sono I Carabinieri, il generale Dalla Chiesa e tra questi I personaggio inventati da Iovane, il Maresciallo Ivano Melis e Salvatore De rosa carabiniere che ci crede a quella lotta.   Intorno inoltre ci sono giornalisti, uno sceneggiatore, altri personaggi degli anni vivi della politica.   
Più che un affresco storico però nella storia di Jacopo Varega sarà in ballo la “questione privata”, perché come nel romanzo di Fenoglio sulla resistenza, la verità non sta tanto nell’epica di guerra e la retorica degli eroi, delle vittime e degli antieroi. 

Quel romanzo ci raccontava infatti di una complessa geometria tra le passioni amorose e la guerra, che del resto stanno alle spalle dell’epica italiana, molto più morbida e sensuale. L’Orlando Furioso, ad esempio, è più l’amore folle per Angelica che non la disfida coi Saracini.
Iovane si mette su questa scia ideale, fa balenare umanità in una storia che non ha nulla dell’epica positiva della Resistenza (nonostante I deliri di terroristi e fiancheggiatori)
La questione privata, dunque. (Io sono del 1965, Antonio del 1974. I dieci anni in più mi permettono di confermare che alla fine degli anni 70 alle manifestazioni si andava per sdegno per idealismo, pe stare con gli amici e per conoscere le ragazze o finalmente incontrare quella ragazza coi capelli rossi che).

 Jacopo Varega Entra nelle BR ci sta per qualche anno e poi ne esce, secondo un arco che avrà sempre a che fare anche con Irene, la sua ossessione. Del resto, è un romanzo, e la letteratura permette questa esplorazione dei labirinti personali. Iovane li mostra, ma certo la sua scelta è sicuramente a vantaggio dell’intreccio giallo (con doppio colpo di scena, tutto ben costruito) e meno tesa ad esplorare I labirinti interiori delle scelte di morte, “demoniache”, e poi le colpe, di ascendenza dostoevskiana.

La Storia italiana di questi dodici anni è già labirintica di suo, e Iovane la ripercorre la evoca, con il ritmo di una sceneggiatura – del resto il personaggio di Giulio Fornati, sceneggiatore di poliziotteschi anni 70, amante della giornalista Ornella, è lì a segnalarci l’altra parte della barricata della Storia, non quella dei fatti e dei documenti, ma lo storytelling da mitologia di massa.
Se degli anni 70 rischiamo di ricordare in modo selettivo, distratti anche dall’idea che – tanto per fare l’esempio più noto - quelli della banda della Magliana siano fighi come Favino e De Maria, è pur vero che non tutto si comprende dai soli documenti. Così Jacopo Varega che viene reclutato e recluta lui stesso a suon di frasi fatte ideologiche, nei non detti delle sue incertezze rivela invece che c’era qualcosa in più. Iovane lo accenna, forse se Varega avesse scritto poesie come Ungaretti durante la prima guerra mondiale avremmo avuto almeno un lampo di quella condizione esistenziale. Ma c’era? Esisteva una coscienza o sono io a immaginarla?


 Questo tratto – per me, che vorrei sempre scavare con lentezza nelle cose – è un punto nodale, se dovessi dire la mia, l’avrei preferito, nel romanzo, ma per altri invece l’equilibro tra la dimensione interiore accennata e poi il necessario svolgersi dei fatti, nell’intreccio storico-romanzesco (che va detto funziona molto bene, non c’è dubbio) per altri sono un pregio.
Mi rendo conto – qui la recensione diventa anche per me “questione privata” – che il fatto di esserci stato più o meno senziente in quegli anni, di aver sentito il piombo, l’odore e la cupezza delle pistole che sparavano, la pesantezza dei posti di blocco anche per noi che uscivamo a mangiare una pizza a San Lorenzo da pischelli, fa sì che a distanza io reputi un mistero, pari ai misteri processuali, ai “misteri d’Italia” il lato oscuro e personale del piombo.
Tanto oscuro tanto quanto le trame che stanno dietro quegli anni e che spiega non solo la scelta di morte, ma anche a scelta di tradimento. 

L’infamità, prima che nel meccanismo Legal thriller del romanzo di Iovane, è nei fatti. E allora, perché uccisero? Ma soprattutto, perché si vendettero I loro presunti ideali, seppur folli e da assassini, al migliore offerente? Perché non c’è dubbio che la storia abbia documentato come di infami (non solo pentiti, ma doppio-giochisti di alto livello) in tutta quella storia ce ne sono stati diversi.
Perché? l’infamia ha a che fare con quel torbido interiore e per me resta inspiegabile – e forse fa bene Iovane a non provarci neppure, nessuno a mio avviso c’è riuscito.
 Cosa ha spinto dei ragazzi di 22, 23, 25 anni a darsi alla macchia, a uccidere, a entrare in un giro criminale, arrivare fino all’incoscienza di rapire il presidente della DC e ucciderlo.
a volte penso sia l’esaltazione incosciente degli adolescenti. Eurialo e Niso giovani e incazzati. A volte c’è un senso di ebrezza della vendetta, ma di chi? Per cosa? Per quali ingiustizie subite, se la maggior parte erano bravi ragazzi di famiglie normali, spesso anche di buona famiglia, specie all’inizio (la generazione di Curcio, quello vero ma anche di Jacopo Varega )?
di quale rivoluzione parlavano se non lavoravano, e non erano direttamente interessati ai processi di sfruttamento del proletariato di cui si facevano difensori? C’è qualcosa che li ha trascinati, oltre l’ideologia?

“(..) pensavo: lo stiamo facendo davvero, le regole le facciamo noi. Il processo lo facciamo noi. Chi ha provato questa sensazione non può capire” dice Jacopo a un certo punto nel romanzo quando è alle sue prime azioni. Quel senso di erigersi a giusto tra i giusti è l’elemento chiave: “l’ebrezza di essere. rivoluzionari” dice ancora Varega, che somiglia forse a tutte le ebrezze giovanili, più di quanto non faccia pensare il marxismo di facciata: alla fine erano giovani “battelli ebri” anche loro come Rimbaud, erano pari a chi provava l’ebrezza delle droghe, l’ebrezza alcolica.
A quella presunzione di eternità ed estensione della gioventù come punto più distante dalla morte e più vicino all’invincibilità si colloca anche l’altro elemento quello di ritenersi oltre che giusti “gli eletti” I prescelti, legandosi alla lunga catena di arroganze rivoluzionarie che hanno costellato la storia moderna, dai giacobini al mov 5 stelle (che infatti con Beppe Grillo parlando di Giuseppe Conte ha rispolverato proprio la parola “eletto”). 

Del resto, la presunzione di rappresentare la perfezione rispetto all’idea, alla fede è propria di tutte le jihad, sia quella fondamentalista islamica come quella leninista. In realtà la storia è fatta anche da “gesti ridicoli”, come dice il giovane giornalista Galbiati, in un momento cruciale, anche lui al bivio di una scelta. Le coincidenze fortunose, per scelte individuali e private, sono speculari a quelle dei terroristi, ma in questo i personaggi tratteggiati da Iovane lo mettono in chiaro: la lotta è del singolo, come scrive il giudice Sozzi alla moglie, perché “ognuno deve assumersi le sue responsabilità” dirà il magistrato rapito, ma questa lezione civile è solo per alcuni, in un paese dove gli interessi sono privati e le colpe sempre pubbliche. Sia la retorica populista e collettivista, astratta dei brigatisti che quella paludosa e gassosa del sistema democristiano si fronteggiarono a partire da una mancanza di assunzione di responsabilità e scelta attiva dei singoli: lo fecero solo alcuni, chi cercò la verità come Galbiati o chi si batté per sconfiggere I terroristi, come Dalla Chiesa, in entrambi I casi – nel romanzo come nella realtà – finì male per loro. E a suo modo anche Varega…
Questa esposizione a dire “io” è una caratteristica che gli eroi, quelli veri perché sconfitti tragicamente, condividono con I poeti e in un secolo di totalitarismi reali e mascherati la loro sorte, di “parassiti” inetti, estranei, sarà sempre di sconfitti. Ben diverso dall’Io del narcisismo di massa e della sua illusione di vivere una singolarità della società consumista. Che è totalitaria quanto l’annullamento umano della prassi brigatista, una finta identità che rivela una misera di struttura anonima e quel narcisismo altrettanto invasivo e totalizzante. “Questi brigatisti non sono nessuno” è la condanna morale che pronuncia la vedova Melis, a chi non può guardare l’altro se non lo vede, se non vede anche quanto possa essere somigliante a chi guarda. MA senza le questioni personali, non c’è rivoluzione e a Irene è l’emblema, che aggredisce verbalmente Jacopo che le chiede “cosa siamo noi” risponde “che l’organizzazione viene prima delle questioni personali. In realtà tutto si gioca proprio nella questione privata, sia nella scelta che poi nel riconoscimento di responsabilità. La volontà di rivendicazione e quella del voler dire “io” come poeta, porta Varega come tanti brigatisti quegli anni, alla clandestinità e a cambiare e perdere il proprio nome. Sarà quello il contrappasso, l’esilio Il cambio nome e faccia, così che non solo chi lo riconoscerà, ma anche di fronte a quello specchio il narcisista sia condannato a dire: “quello non sono io” – ma pure guardandosi negli occhi Jacopo Varega saprebbe che la sua e dei suoi compagni d’arme è stata una storia di fantasmi. Più che come lo spettro del comunismo che s’aggirava in Europa, come il fantasma di un ‘epica che non c’è mai stata.


6 commenti:

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