PAUL CELAN nasceva il 23 novembre a Cernauti, una città
detta la piccola Vienna oggi in Ucraina il 23 novembre, cioè oggi, del 1920.
Poteva esserci nei nostri anni complicati, e
invece scelse d’andarsene e in un Aprile del 1970 a Parigi . Se penso a
come poteva essere radiosa la Prigi ad Aprile e proprio in quegli anni – eppure lui
vedeva la “luce coatta” di un tempo che non aveva mantenuto la sua promessa – e
non poteva, non si ripara la ferita che ha vissuto, personale e storica, uno
come Celan.
Oggi che sarebbe il suo possibile 96esimo compleanno - main fondo non è sempre con noi? nella nostra fuga? - mi piace ricordarlo per una storia di coppia.
Fino dove sono
arrivati, quello è il confine dell’esperienza. Poi resta la parola da mandare
in avanti, nel tempo a venire: “Raggiungibile, vicina e non perduta in mezzo a
tante perdite, una cosa sola: la lingua” avrebbe scritto Paul nel 1958 – ma perché
era ancora sul quel filo teso, d’acciaio e di paure – che era la loro
relazione. Possibile.
Raggiungibile è l’altro – o la parola per l’altro. Ma i
due erano troppo scavati dal vuoto che la storia aveva preparato per loro, non
solo a causa di quello che avevano vissuto, ma anche a causa di quel “dopo” che
sarebbe stato un orrore bianco, una trasparenza minacciosa del tempo felice. Quello
che Celan aveva visto nella Parigi luminosa del 1970 e che forse sempre aveva
visto a Parigi, desiderata, mai trovata patria. Scrive Paul a Ingeborg inquella fine degli anni 50:
”Triste ritorno a Parigi: ricerca di una stanza e di essere umani – deludenti l’una e l’altra. Solitudini piene di chiacchiere, liquefatto paesaggio di neve, segreti personali bisbigliati alla gente. In breve, un gioco divertente con ciò che è oscuro, al servizio, si capisce, della letteratura. Talvolta la poesia sembra essere una maschera, che esiste soltanto perchè gli altri di tanto in tanto hanno bisogno di qualcosa dietro cui nascondere le proprie santificate smorfie quotidiane.”
”Triste ritorno a Parigi: ricerca di una stanza e di essere umani – deludenti l’una e l’altra. Solitudini piene di chiacchiere, liquefatto paesaggio di neve, segreti personali bisbigliati alla gente. In breve, un gioco divertente con ciò che è oscuro, al servizio, si capisce, della letteratura. Talvolta la poesia sembra essere una maschera, che esiste soltanto perchè gli altri di tanto in tanto hanno bisogno di qualcosa dietro cui nascondere le proprie santificate smorfie quotidiane.”
E Ingeborg risponde
"...La vanità delle aspirazioni – ma sono davvero tali? –
intorno a noi, l’industria culturale, della quale adesso anch’io faccio parte,
tutto questo disgustoso darsi da fare, i discorsi insolenti, la smania di
piacere, l’oggi pieno di sè, – questo ogni giorno mi diventa più estraneo, io
ci vivo in mezzo ed è ancora più impressionante vedere gli altri vorticare
soddisfatti...”
E poi in un’altra lettera aggiunge..
“… Se oggi mi chiedi quali sono i miei desideri, i miei veri desideri, mi è difficile trovare
immediatamente una risposta, può anche darsi che sia arrivata alla convinzione
che non spetta a noi desiderare, che a noi spetta soltanto un determinato
lavoro, che qualunque cosa facciamo non serve a nulla..”
Il lavoro della
poesia, con le parole, resta su quel
filo spinato, come pezzi di pelle strappati dai piedi chi poi è caduto.
Atroci bandiere.
Atroci bandiere.
Nessun commento:
Posta un commento