venerdì 5 dicembre 2025

TUTTO QUELLO CHE RESTA, NON E' (Appunti su "tutto quello che è un uomo" di David Szalay, Adelphi)

 


C'è qualcosa di comico e di assurdo nel fatto che in un'epoca in cui uno dei principali soggetti sotto accusa (CON TANTISSIME RAGIONI SIA CHIARO) è il “maschio bianco etero, occidentale soprattutto europeo”, identità raggiunta da una raffica di condanne che precipitano nel vortice tra accuse generali e le sentenze individuali, che nella sia singolarità riguardano ogni maschio (“ti sei preso il pezzo di toast con il tovagliolo, per primo”) e che ogni “maschio bianco etero occidentale soprattutto europeo” si vede spesso pronunciare davanti, davanti al lui medesimo, proprio a lui singolo maschio, etero, bianco occidentale, soprattutto europeo, nella singolarità eppure:
eppure il romanzo più importante di questo passaggio d’epoca sia proprio un grande romanzo europeo del 2016 che racconta in modo implacabile cosa sia la decadenza di un maschio bianco occidentale etero, europeo., più evidente forse adesso che allora.
Non solo, nessun romanzo, con nessun soggetto altr* sembra ad oggi al pari di questo libro: “Tutto quello che è un uomo” di David Szalay pubblicto nel 2017 da Adelphi, e che ho letto solo ora, dopo averlo pensato per tutto questo tempo, perché dopo questo libro già premiato e finalista in vari premi, è arrivata la recente pubblicazione di “Nella carne” che ha vinto il Booker Prize 2025 e che ora leggerò, senza aspettare.
L’ho finito e penso che “Tutto quello che è un uomo” sia, tra i non molti dei libri degli ultimi anni, un libro che ti resta adosso con tutto quello che resta.
Un libro-para-romanzo, in cui i personaggi sono memorabili, questi Nove uomini maschi etero occidentali europei, che in realtà sono lo stesso (generale) uomo e sono tutti noi (me compreso) nella sua singolarità. Nove racconti (che collegati tra loro fanno un “para-romanzo”): potere della letteratura vera, perché questo è un libro anche sulla letteratura “postrema”.
Sia chiaro nessun orgoglio è possibile, e nessuno può tra noi maschi bianchi etero occidentali anche di una certa età, sbandierare questo libro con identificazione, perché se l'identificazione c'è, essa è pure enorme e al tempo sconquassante, nel suo essere una “non- epica” della vergogna, non-epica della sottrazione.
L'unico che può rivendicare con orgoglio tra noi maschi bianchi etero occidentali in particolare europei è solo David Szalay per averlo scritto.
Può rivendicarlo perché egli è l'autore di un libro , in mezzo a tanta letteratura "a tema", in cui ciò che conta è la "forma" e la struttura di una narrazione e il suo linguaggio, in mezzo a troppi libri che si areano al solo soggetto, alla storia.
Questo è un grande romanzo europeo, perché ritrova le sue caratteristiche per le quali abbiamo amato la letteratura occidentale del ‘900, è un libro che sta sul versante del “non”, di questa particella prepositiva e privativa, che possiamo premettere a tutte le caratteristiche di quella grande letteratura. E pur vero che il versante del negativo è stato proprio il grande terreno dell' “epica immobile” di una paralisi che è cominciata con un Mr. Bloom che vagava a Dublino in un giorno di Marzo.
non ci sarebbe questo romanzo se non ci fosse da un lato la grande letteratura eurpea e inglese, ma soprattutto quella modernista da Joyce a Beckett e Pinter ma anche una certa ironia orientale dell'oriente dell’Europa dell'oltre, mi viene in mente Ionesco tanto per stare nel territorio dell'assurdo, di quel che chiamiamo assurdo ma che è diventato in realtà il normale il naturale perché era giudicato tale, cioè, assurdo in un'epoca in cui ci si credeva ancora ottocenteschi.
i personaggi di Szalay vagano come sonnambuli in una Europa che è diventato un territorio al tempo stesso piatto anonimo grigio nuvoloso deprimente e al tempo stesso e forse però anche per questo, un territorio votato quasi solo alla deambulazione turistica di zombies del divertimento a tutti i costi (Pensa a divertirti) un divertimento che si traduce in un trash del miserevole, dell'ordinario, del decadente, dello squallido.
C'è tantissimo squallore in questa Europa che va da Londra alla Croazia all'Italia, a Cipro passando per la Francia, Le Alpi , sullo sfondo l’ Ungheria. Già l’ungheria: Casualità 2025: Preno Nobel all’ungherese László Krasznahorkai (1954) e Booker prize a David Szalay anglo-canadese, di padre ungherese emigrato nato nel 1974.
Ungheria superstar in letteratura, proprio mentre lUngheria di Orban sta mostrando la sua volontà ferma di uscire dall’EUROPA e di rientrare nell'orbita culturale, ma generica artefatta artificiosa e midcult del “russimo” non paga di aver sofferto lo stalinismo.
(sto leggendo anche “Farsi male” di Lingiardi,ecco agli ungheresi il “Premio masochismo 2025” )

*******************************  da qui riprende da Facebook *******

 che se poi Orban volesse far suo lo slogan di Trump “make Ungheria Great again”  dovrebbe esaltare l'impero austroungarico e tutta quella cultura e letteratura che oggi condannerebbe proprio Orban come una orribile marionetta, come quelle del teatro di Tadeus Kantor, o come i protagonisti di “Le sedie” di Ionesco, tanto epr stare in area “europa orientale”. Strano che Szalay si sia fermato a vivere in Ungheria, quando ha mollato i suoi lavori con grandi aziende e ha deciso di scrivere. MA forse era un buon punto di osservazione  per poter raccontare la miseria del maschilismo europeo,  la povertà quasi pietosa di questa parabola di decadenza dico Europa ma non c'è l'Europa o meglio nel suo non- esserci. nel suo “non essere più l'Europa”  sta il suo “essere L'Europa di oggi per come la ritrae Szalay. L’Eurpa come ammasso di noi, “i particelle elementari” per dirla con il romanzo di Houellebecq, che mi sembra un modello imprescindibile come scrittura per Szalay, che si colloca in quella eredità della disfatta, eredità del dissolvimento di tutte le “illusioni della libertà” della individualità come possesso della propria vita, e con esseri umani maschi etero occidentali che precipitano.

Sono personaggi che spesso nemmeno la ricordano però quell’Europa, adesempio i ragazzi dell’apertura del libro Simon e Ferdinand, non ricordano “l’Europa del Muro” mentre approdano a Berlino sedicenni, non sanno nulla del muro però ricordano Eliot il suo Aprile crudele, il suo “melodioso pessimismo”.

Come loro in “Tutto quello che è un uomo” i  personaggi son “senza un dove”,  senza un dove vorrei essere, senza  un’Europa ridotta a cartoline sbiadite,  a percezioni di un vissuto degenerato, esperito tra i 16 e i  73 anni, con un’unica domanda “che cosa ci faccio qui?” che è una domanda che fu di un di un grande sognatore europeo Bruce Chatwin, che vagava per il mondo nomade, forse con quel tanto di inevitabilmente attitudine esotista, o coloniale, si direbbe oggi, ma che era il tempo stesso il sogno di un progresso, di un'espansione vitale (mentre L'Europa del maschio depresso che piomba nel proprio inghiottimento privativo è proprio l'Europa che ha assorbito in sé, fino a farsi crocifissione,  quell'accusa di soggettivismo, forse superomismo espanso)

L'Europa appare ora a Ferdinand e Simon e i due sedicenni a Berlino come una sequenza di statue bianche di pietra come le vedono in un monumento, che fanno un po’ tutto: molestano donne lottano scrutano l'orizzonte, ma ciascuno congelato in un “gesto di smania oscura”.

E tuttavia in quella smania c'era il bene e c'era il male, ora c’è solo un moto perpeturo e circolare, a vuoto, che anima questo movimento disperso di sonnambuli e zombie in Europa ed è “ pensate a divertirvi”, il motto degli anni ’90 invecchiati mle : “Have fun”

L'Europa come appare sul lugubre Ponte Carlo di Praga,  con le statue annerite e i turisti ciabattoni che si agitano e con Simon che sentenzia che “quel posto è una Disneyland senz'anima” e “ come fa un turista a essere felice sempre a girare sempre senza niente da fare è alla ricerca di qualcosa”.

 ma questa condizione di turisti non è solo la condizione di chi è in vacanza ma è la condizione di chi è “vacante” tutto il tempo, e quel vuoto compone queste brevi vite infelici di turisti della storia.
“Tutto quello che è un uomo” libro fatto di racconti in cui quello che predomina è proprio la struttura della sottrazione, la capacità di saper far parlare il” non detto” nella scrittura,  in questa mancanza in questa frattura e ferita del linguaggio,  in questo impoverimento trasparente, in questo neutro.


Un “neutro” mortale che sta intorno a ciò che è scritto, che non è bianco è semplicemente neutro: c'è la forza stilistica di questo romanzo la sua capacità di comporre con il niente quel qualcosa che continua ad essere la letteratura, come se da questo ungherese di seconda generazione cresciuto nel cuore di un impero che stava decadendo, e nel suo decadere pensò nene di uscire dall’Europa, come ha fatto appunto la Gran Bretagna in cui è cresciuto Szalay,  come se questo non-europeo che non ha un suo dove né in Canada, né in Gran Bretagna né in quell’Ungheria da dove viene suo padre,  che vive un triste passaggio tra la dittatura durante il 900 e l'autoritarismo del ventunesimo secolo diventando quasi un modello mondiale di questa deriva, ci dicesse qualcosa di questa “gloriosa povertà”,  di questa epica della privazione che stiamo vivendo e che Szalay racconta,  in cui in un contesto così bruciato povero di cultura così povero di profondità, con i personaggi che dicono quasi sempre il più delle volte “Okay”  che appunto l'imitazione grottesca del “sì” di Molly Bloom e di Nietzsche,  è come se ci stesse dicendo che quello che ci è rimasto è la cosa più alta, il bene più prezioso dell’Europa e al tempo stesso il più inutile: la letteratura

Che è una cosa che del resto sapevano anche i suoi antenati scrittori i suoi antenati di riferimento, come quel Kafka altro predecessore a cui Szalay  sicuramente guarda e che ci ricorda come “ci sia speranza ma non per noi” il che non significa, come in Leopardi un senso disperato e di negatività infinita ma definita nell’esserci, unica cosa che abbiamo.

Nella “non speranza”  ciò che “resta” è ciò che scorre il grande patrimonio dell'umanità e la sua capacità di percepire che quello che resta è quello che è qui,  fosse anche solo pura materia.
In realtà la materia di cui è fatto “l'uomo” tutto quello che è un uomo è il tempo, che però non esiste se non nella eterna percezione di un impermanenza. Ma proprio il fatto di finire in ogni momento è ciò che “non finisce mai”, e  fosse anche questo “mai” (cosa familiare appunto a Kafka)  una pena infinita, una “condanna”.

Ci dobbiamo collocare dentro questi paradossi così come la nostra materia infinitamente piccola, nelle particelle,  si colloca nei paradossi della fisica quantistica che ci ricorda il nostro essere qualcosa e al tempo stesso non esserlo,  che è proprio della cosa osservata così come dello sguardo dell'osservante. Noi, io, maschio etero biuanco europeo occidentale, di una certa età.

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