mercoledì 17 dicembre 2025

TEATRO, PREMI UBU E UNA MOLTO BUONA ANNATA, SPESSO OTTIMA. (Nonostante difficoltà, tagli e incapacità istituzionali)

 


Il teatro gode di ottima salute creativa, per affrontare il mare in tempesta di risorse economiche ridotte e di una costante avversione istituzionale nei confronti del mondo della cultura. Lo dimostra la serata finale dei Premi Ubu per Franco Quadri, per le migliori realizzazioni in tutti i settori della produzione e invenzione teatrale. Qualità, ricchezza plurale di moltissime candidature oltre che dei premiati.
I settantasette referendari – tra cui è anche chi scrive – hanno portato rose di candidati che si sono contesi, spesso per pochi voti, il premio finale (è stato spesso difficile decidere ). È un buon segno, in fondo.
ho messo i link ai pezzi che ho scritto, metto dove ci sono anche le date prossime. Approfittate, è stata una buona annata.

Ha vinto come migliore spettacolo italiano  A place of safety del collettivo Kepler 452, ideato scritto (con candidatura al miglior testo) e diretto da Nicola Borghesi ed Enrico Baraldi, frutto di una esperienza a bordo di una nave di soccorso con Emergency e Sea-Watch portando in scena operatori e volontari con i loro racconti. Lo spettacolo sarà dal 27 dicembre fino all’11 gennaio 2026 sarà al Piccolo Teatro di Milano. Poi dal 5 all'8 marzo a Blogna Arena del Sole. 
Molto valido anche l’altro spettacolo candidato al premio principale,  La vegetariana,  che ha vinto anche per la  “Migliore scenografia” a Daniele Spanò e il “Miglior disegno luci” a Giulia Pastore. La regia è di Daria Deflorian (candidata in questa categoria)  che ha adattato – insieme a Francesca Marciano – il romanzo di Hang Kang . La vegetariana sarà a Milano: 10-19 aprile 2026 (Piccolo Teatro di Milano).Cesena: 28-29 aprile 2026 (Teatro Bonci).Roma: 19-24 maggio 2026 (Teatro Vascello).

La riscrittura drammaturgica del romanzo della premio Nobel coreana era in lizza per la nuova categoria di premi, per “Miglior testo non originale” (dedicato a riscritture e/o adattamenti, vista la presenza di molti spettacoli tratti da opere narrative) che è andato  a “Altri Libertini” dai racconti di Per Vittorio Tondelli con la regia di Licia Lanera. Sarà a torino al T Gobetti Dal 10/02/2026 al 15/02/2026 - di Tondelli bisognerà parlare ancora in questo paese che dimentica troppo in fretta i suoi grandi autori.

Candidato a miglior spettacolo era anche Capitolo Due di Neil Simon, raffinato e originale nel ridefinire l’uso del comico, grazie a una regia sapiente di Massimiliano Civica che ha vinto l’Ubu per la “Migliore regia”. Teatro Fabbricone di Prato (19-22 febbraio 2026) e al Teatro Bonci di Cesena (21-22 marzo 2026)

Personalmente non seguo molto la danza, per una scelta di competenze ed economia di tempo, pur apprezzando alcune opere, quando sono capaci di ibridare molti teatro, danza e altri linguaggi artistici. E tra questi c’è sicuramente “Asteroide” di e con Marco D’Agostin, che intreccia amori, catastrofi, dinosauri estinzione e scienza un impossibile musical. One man show per uno dei grandi talenti della performance italiana. 12 marzo 2026, Teatro Camploy, Verona (IT), 26 marzo Teatro della Tosse, Genova , 10 maggio Teatro Palladium, Roma (IT), 16 maggio CSS, Udine.
Se tra gli attori candidati c’erano due ottimi interpreti, che sanno mostrare versatilità e raffinatezza come Aldo Ottobrino (per Capitolo Due) e Gabriele Portoghese (per La vegetariana) ha vinto come miglior attore Davide Enia con il suo “Autoritratto” , aggiudicandosi anche il premio per “Miglior testo italiano”, che – come nella forma di teatro-narrazione a cui ci ha abituato Enia – è un potente e toccate racconto dei giorni in cui l’autore adolescente viveva la stagione della guerra di mafia e dei quotidiani omicidi a Palermo,  negli anni ’80 e che portarono poi agli attentati a Falcone e Borsellino. Savona (SV) Chiabrera06/02/2026;  Faenza (RA)Masini 10/03/2026;  Firenze (FI)  Di Rifredi Dal 12/03/2026 al 13/03/2026;  Pontedera (PI)  Era Dal 14/03/2026 al 15/03/2026;  Monza (MB)  Manzoni 20/03/2026;  Napoli (NA)  San FerdinandoDal 25/03/2026 al 29/03/2026

Va detto che sicuramente la scorsa stagione ha visto protagoniste molte attrici e di grandissimo valore, lo testimonia il fatto che la candidature erano quattro, per via di exequo. Brave Sonia Bergamasco (con Elettra), Giuliana De Sio (Cose che so essere vere) e Monica Piseddu (per La vegetariana) ma questo sembra essere il momento magico di Valentina Picello premiata per le interpretazioni di “Anna Cappelli” di A. Ruccello e “La gatta sul tetto che scotta” di T. Williams, apprezzato anche per la regia di Leonardo Lidi, anche egli tra i candidati per questa categoria (Picello è protagonista anceh di “Madri” testo finalista a questi Ubu e scritto da uno dei migliori tra i nuovi drammaturghi taliani, Diego Pleuteri.
“la gatta” sarà : Bari,  Piccinni Dal 17/12/2025 al 21/12/2025;  Trieste (TS)  Politeama Dal 08/01/2026 al 11/01/2026;  Bolzano (BZ)  Comunale Dal 22/01/2026 al 25/01/2026;  Prato (PO)  Metastasio Dal 29/01/2026 al 01/02/2026 ; Reggio Emilia  Ariosto Dal 03/02/2026 al 4/02/2026;  Pordenone  Verdi Dal 06/02/2026 al 08/02/2026 ; Milano  Franco Parenti - Dal 10/02/2026 al 15/02/2026

 Invece il testo,  interpretato (ottimamente) da De Sio, “Things I Know to Be True”  dell’australiano Andrew Bovell ha ricevuto il premio come “Nuovo testo straniero”, in quanto messo in scena da compagnie o artisti italiani (in questo caso con regia e interpretazione di Valerio Binasco). Bovell è un grande autore contemporaneo e sarà presto con un nuovo testo sulle scene italiane.


Per i giovani under 35, la migliore attrice/performer 2025 è Francesca Astrei, mentre il miglior attore/performer è Pietro Giannini, che alle dotti interpretative unisce una solida capacità di scrittura, dimostrata per il suo “La traiettoria calante” un assolo di teatro civile e narrativo che ricostruisce la tragedia del crollo del ponte Morandi, a Genova, città natale di Giannini. Complimenti a loro, anche ai candidati , sono il futuro: Alfonso De Vreese, Niccolò Fettarappa, Giulia Heathfield Di Renzi, Evelina Rosselli (brevissima in "Sdisorè" di Testori, a Maggio al Teatro Fonda di Milano) 

Difficile la scelta per il miglior spettacolo straniero visto in Italia tra “Changes” del tedesco Thomas Ostermeier, che ha vinto, “Lacrima” delal francese Caroline Guiela Nguyen e “Parallax” dell’ungherese Kornél Mundruczó.  Ostermeier sarà a gennaio a Roma all’argentina con il recente “il granchio” da Ibsen 23 e 24 gennaio. Nguyen sarà con il nuovo lavoro “Valentina” al Piccolo di Milano a Maggio.

Infine premi per il “Miglior disegno sonoro” a Vanni Crociani, Giuseppe Franchellucci, Massimo Marches, Mario Perrotta (“Nel blu. Avere tra le braccia tanta felicità” spettacolo su Domenico Modugno e premi speciali a Teatro Akropolis, Mimmo Borrelli, Teatri di Vetro, Teatro dei Venti, Motus mentre il premio “Franco Quadri” assegnato dal direttivo Ubu è andato a Roberta Carlotto e alla rapper e poetessa inglese Kae Tempest, che vedremo. Di lei avevo scritto diverse volte negli anni Dieci, qui un pezzo del 2018 su Robinson https://www.repubblica.it/robinson/2018/09/05/news/kate_tempest_libro_resta_te_stessa-205673751/



Ultimo ma non ultimo, il premio alla carriera a Pippo DelBono regista, autore e attore, CON una ricerca pluridecennale di poesia e spiritualità, col suo teatro apprezzato in tutta Europa, con la sua originalità di scrittura, capace di creare immagini altamente simboliche mescolate a un radicamento alla vita vera (e per decenni insieme all’amico attore e sodale di vita “Bobo” scomparso un anno fa e a cui è dedicato un film appena uscito). Vita e arte che vanno assieme. . Avevo scritto de “Il risveglio” lo scorso anno



TUTTI I PREMIATI 



venerdì 5 dicembre 2025

TUTTO QUELLO CHE RESTA, NON E' (Appunti su "tutto quello che è un uomo" di David Szalay, Adelphi)

 


C'è qualcosa di comico e di assurdo nel fatto che in un'epoca in cui uno dei principali soggetti sotto accusa (CON TANTISSIME RAGIONI SIA CHIARO) è il “maschio bianco etero, occidentale soprattutto europeo”, identità raggiunta da una raffica di condanne che precipitano nel vortice tra accuse generali e le sentenze individuali, che nella sia singolarità riguardano ogni maschio (“ti sei preso il pezzo di toast con il tovagliolo, per primo”) e che ogni “maschio bianco etero occidentale soprattutto europeo” si vede spesso pronunciare davanti, davanti al lui medesimo, proprio a lui singolo maschio, etero, bianco occidentale, soprattutto europeo, nella singolarità eppure:
eppure il romanzo più importante di questo passaggio d’epoca sia proprio un grande romanzo europeo del 2016 che racconta in modo implacabile cosa sia la decadenza di un maschio bianco occidentale etero, europeo., più evidente forse adesso che allora.
Non solo, nessun romanzo, con nessun soggetto altr* sembra ad oggi al pari di questo libro: “Tutto quello che è un uomo” di David Szalay pubblicto nel 2017 da Adelphi, e che ho letto solo ora, dopo averlo pensato per tutto questo tempo, perché dopo questo libro già premiato e finalista in vari premi, è arrivata la recente pubblicazione di “Nella carne” che ha vinto il Booker Prize 2025 e che ora leggerò, senza aspettare.
L’ho finito e penso che “Tutto quello che è un uomo” sia, tra i non molti dei libri degli ultimi anni, un libro che ti resta adosso con tutto quello che resta.
Un libro-para-romanzo, in cui i personaggi sono memorabili, questi Nove uomini maschi etero occidentali europei, che in realtà sono lo stesso (generale) uomo e sono tutti noi (me compreso) nella sua singolarità. Nove racconti (che collegati tra loro fanno un “para-romanzo”): potere della letteratura vera, perché questo è un libro anche sulla letteratura “postrema”.
Sia chiaro nessun orgoglio è possibile, e nessuno può tra noi maschi bianchi etero occidentali anche di una certa età, sbandierare questo libro con identificazione, perché se l'identificazione c'è, essa è pure enorme e al tempo sconquassante, nel suo essere una “non- epica” della vergogna, non-epica della sottrazione.
L'unico che può rivendicare con orgoglio tra noi maschi bianchi etero occidentali in particolare europei è solo David Szalay per averlo scritto.
Può rivendicarlo perché egli è l'autore di un libro , in mezzo a tanta letteratura "a tema", in cui ciò che conta è la "forma" e la struttura di una narrazione e il suo linguaggio, in mezzo a troppi libri che si areano al solo soggetto, alla storia.
Questo è un grande romanzo europeo, perché ritrova le sue caratteristiche per le quali abbiamo amato la letteratura occidentale del ‘900, è un libro che sta sul versante del “non”, di questa particella prepositiva e privativa, che possiamo premettere a tutte le caratteristiche di quella grande letteratura. E pur vero che il versante del negativo è stato proprio il grande terreno dell' “epica immobile” di una paralisi che è cominciata con un Mr. Bloom che vagava a Dublino in un giorno di Marzo.
non ci sarebbe questo romanzo se non ci fosse da un lato la grande letteratura eurpea e inglese, ma soprattutto quella modernista da Joyce a Beckett e Pinter ma anche una certa ironia orientale dell'oriente dell’Europa dell'oltre, mi viene in mente Ionesco tanto per stare nel territorio dell'assurdo, di quel che chiamiamo assurdo ma che è diventato in realtà il normale il naturale perché era giudicato tale, cioè, assurdo in un'epoca in cui ci si credeva ancora ottocenteschi.
i personaggi di Szalay vagano come sonnambuli in una Europa che è diventato un territorio al tempo stesso piatto anonimo grigio nuvoloso deprimente e al tempo stesso e forse però anche per questo, un territorio votato quasi solo alla deambulazione turistica di zombies del divertimento a tutti i costi (Pensa a divertirti) un divertimento che si traduce in un trash del miserevole, dell'ordinario, del decadente, dello squallido.
C'è tantissimo squallore in questa Europa che va da Londra alla Croazia all'Italia, a Cipro passando per la Francia, Le Alpi , sullo sfondo l’ Ungheria. Già l’ungheria: Casualità 2025: Preno Nobel all’ungherese László Krasznahorkai (1954) e Booker prize a David Szalay anglo-canadese, di padre ungherese emigrato nato nel 1974.
Ungheria superstar in letteratura, proprio mentre lUngheria di Orban sta mostrando la sua volontà ferma di uscire dall’EUROPA e di rientrare nell'orbita culturale, ma generica artefatta artificiosa e midcult del “russimo” non paga di aver sofferto lo stalinismo.
(sto leggendo anche “Farsi male” di Lingiardi,ecco agli ungheresi il “Premio masochismo 2025” )

*******************************  da qui riprende da Facebook *******

 che se poi Orban volesse far suo lo slogan di Trump “make Ungheria Great again”  dovrebbe esaltare l'impero austroungarico e tutta quella cultura e letteratura che oggi condannerebbe proprio Orban come una orribile marionetta, come quelle del teatro di Tadeus Kantor, o come i protagonisti di “Le sedie” di Ionesco, tanto epr stare in area “europa orientale”. Strano che Szalay si sia fermato a vivere in Ungheria, quando ha mollato i suoi lavori con grandi aziende e ha deciso di scrivere. MA forse era un buon punto di osservazione  per poter raccontare la miseria del maschilismo europeo,  la povertà quasi pietosa di questa parabola di decadenza dico Europa ma non c'è l'Europa o meglio nel suo non- esserci. nel suo “non essere più l'Europa”  sta il suo “essere L'Europa di oggi per come la ritrae Szalay. L’Eurpa come ammasso di noi, “i particelle elementari” per dirla con il romanzo di Houellebecq, che mi sembra un modello imprescindibile come scrittura per Szalay, che si colloca in quella eredità della disfatta, eredità del dissolvimento di tutte le “illusioni della libertà” della individualità come possesso della propria vita, e con esseri umani maschi etero occidentali che precipitano.

Sono personaggi che spesso nemmeno la ricordano però quell’Europa, adesempio i ragazzi dell’apertura del libro Simon e Ferdinand, non ricordano “l’Europa del Muro” mentre approdano a Berlino sedicenni, non sanno nulla del muro però ricordano Eliot il suo Aprile crudele, il suo “melodioso pessimismo”.

Come loro in “Tutto quello che è un uomo” i  personaggi son “senza un dove”,  senza un dove vorrei essere, senza  un’Europa ridotta a cartoline sbiadite,  a percezioni di un vissuto degenerato, esperito tra i 16 e i  73 anni, con un’unica domanda “che cosa ci faccio qui?” che è una domanda che fu di un di un grande sognatore europeo Bruce Chatwin, che vagava per il mondo nomade, forse con quel tanto di inevitabilmente attitudine esotista, o coloniale, si direbbe oggi, ma che era il tempo stesso il sogno di un progresso, di un'espansione vitale (mentre L'Europa del maschio depresso che piomba nel proprio inghiottimento privativo è proprio l'Europa che ha assorbito in sé, fino a farsi crocifissione,  quell'accusa di soggettivismo, forse superomismo espanso)

L'Europa appare ora a Ferdinand e Simon e i due sedicenni a Berlino come una sequenza di statue bianche di pietra come le vedono in un monumento, che fanno un po’ tutto: molestano donne lottano scrutano l'orizzonte, ma ciascuno congelato in un “gesto di smania oscura”.

E tuttavia in quella smania c'era il bene e c'era il male, ora c’è solo un moto perpeturo e circolare, a vuoto, che anima questo movimento disperso di sonnambuli e zombie in Europa ed è “ pensate a divertirvi”, il motto degli anni ’90 invecchiati mle : “Have fun”

L'Europa come appare sul lugubre Ponte Carlo di Praga,  con le statue annerite e i turisti ciabattoni che si agitano e con Simon che sentenzia che “quel posto è una Disneyland senz'anima” e “ come fa un turista a essere felice sempre a girare sempre senza niente da fare è alla ricerca di qualcosa”.

 ma questa condizione di turisti non è solo la condizione di chi è in vacanza ma è la condizione di chi è “vacante” tutto il tempo, e quel vuoto compone queste brevi vite infelici di turisti della storia.
“Tutto quello che è un uomo” libro fatto di racconti in cui quello che predomina è proprio la struttura della sottrazione, la capacità di saper far parlare il” non detto” nella scrittura,  in questa mancanza in questa frattura e ferita del linguaggio,  in questo impoverimento trasparente, in questo neutro.


Un “neutro” mortale che sta intorno a ciò che è scritto, che non è bianco è semplicemente neutro: c'è la forza stilistica di questo romanzo la sua capacità di comporre con il niente quel qualcosa che continua ad essere la letteratura, come se da questo ungherese di seconda generazione cresciuto nel cuore di un impero che stava decadendo, e nel suo decadere pensò nene di uscire dall’Europa, come ha fatto appunto la Gran Bretagna in cui è cresciuto Szalay,  come se questo non-europeo che non ha un suo dove né in Canada, né in Gran Bretagna né in quell’Ungheria da dove viene suo padre,  che vive un triste passaggio tra la dittatura durante il 900 e l'autoritarismo del ventunesimo secolo diventando quasi un modello mondiale di questa deriva, ci dicesse qualcosa di questa “gloriosa povertà”,  di questa epica della privazione che stiamo vivendo e che Szalay racconta,  in cui in un contesto così bruciato povero di cultura così povero di profondità, con i personaggi che dicono quasi sempre il più delle volte “Okay”  che appunto l'imitazione grottesca del “sì” di Molly Bloom e di Nietzsche,  è come se ci stesse dicendo che quello che ci è rimasto è la cosa più alta, il bene più prezioso dell’Europa e al tempo stesso il più inutile: la letteratura

Che è una cosa che del resto sapevano anche i suoi antenati scrittori i suoi antenati di riferimento, come quel Kafka altro predecessore a cui Szalay  sicuramente guarda e che ci ricorda come “ci sia speranza ma non per noi” il che non significa, come in Leopardi un senso disperato e di negatività infinita ma definita nell’esserci, unica cosa che abbiamo.

Nella “non speranza”  ciò che “resta” è ciò che scorre il grande patrimonio dell'umanità e la sua capacità di percepire che quello che resta è quello che è qui,  fosse anche solo pura materia.
In realtà la materia di cui è fatto “l'uomo” tutto quello che è un uomo è il tempo, che però non esiste se non nella eterna percezione di un impermanenza. Ma proprio il fatto di finire in ogni momento è ciò che “non finisce mai”, e  fosse anche questo “mai” (cosa familiare appunto a Kafka)  una pena infinita, una “condanna”.

Ci dobbiamo collocare dentro questi paradossi così come la nostra materia infinitamente piccola, nelle particelle,  si colloca nei paradossi della fisica quantistica che ci ricorda il nostro essere qualcosa e al tempo stesso non esserlo,  che è proprio della cosa osservata così come dello sguardo dell'osservante. Noi, io, maschio etero biuanco europeo occidentale, di una certa età.

giovedì 20 novembre 2025

CECCHINI E TURISTI DELLA MORTE A SARAJEVO. Una poesia di trent'anni fa e qualche ricordo

 


Tra i cecchini che sparavano a Sarajevo dalle colline uccidendo a caso negli anni della guerra in Bosnia c'erano dei "turisti della morte" persone ricche che pagavano per uccidere, come in "safari della morte". E c'erano, secondo testimonianze - già di qualche anno fa e riproposte in un documentario recente - anche degli italiani.

Ora la procura di Milano indaga su questa possibilità, appunto che alcuni civili italiani abbiano sparato per divertimento contro gli abitanti della capitale bosniaca durante l’assedio tra il 1992 e il 1996.
IN quegli anni io lavoravo a Italia Radio e conducevo una trasmissione del mattino oltre che occuparmi di libri.
Essendo legati all'Unità e al PArtito Democratico, attingevamo ai loro corrispondenti e tra questi Adriano Sofri che fu corrispondente per il quotidiano L'Unità tra il 1993 e il 1995 (nel libro "Lo specchio di Sarajevo" è raccolta quell'esperienza). Non dimenticherò mai alcuni collegamenti in diretta, tra cui uno in cui piansi, dietro il microfono, dopo uno dei due attentati al mercato di Markale, che Sofri testimoniò poco dopo l'esplosione.

L'altro aspetto che colpiva erano i cecchini, era già questo "realismo assurdo" anche se non nuovo nelle guerre - dalla prma guerra mondiale e chi non ricorda la morte assurda in una giornata in cui non succede niente, del romanzo di Eric Maria Remarque?

Ma dalla guerra al turismo per uccidere è l'ingresso in una dimensione su cui - ho usato la categoria dell'assurdo apposta - indaghiamo con ciò che di più profondo abbiamo, l'arte, da un secolo. L'episodio che fa virare Samuel Beckett verso questa poetica e il teatro che sarà definito dall'aggettivo "assurdo" è un accoltellamento casuale per strada da aprte di un senza dimora, che fu rintracciato e che Beckett volle incontrare per sapere il perché e quello rispose, pare, "non lo so".

Sui cecchini di Sarajevo, anche se militari già presenza dell'assurdo, avevo scritto negli anni '90 una poesia. Nella prima edizione in cui è pubblicata conteneva le iniziali di una dedica "a A.S. e E.D.L. " che sentivo in radio e che leggevo da Sarajevo (l'altro è Erri De Luca

Cnservo la memoria dell'assurdo di tutte le guerre, forse anche genealogiche, se penso che mio nonno era stato esposto ai cecchini sul Carso nella Grande Guerra. MA onservo come un dono della vita aver raccolto quei racconti orali della radio da due grandi scrittori.

1,
Per oggi aloni di ammazzati, rimasti ognuno
con la distanza scritta dentro gli occhi
disegnano misero l'oriente delle foreste nude
e i solchi ovunque in aria, a terra tra le fosse, terra
ormai superflua vista in cielo, solo sfondo tra le mani
dei colonnelli d’aeronautica; oggi soltanto piove fuoco
e l’urto di pressione provocherà mal tempo,
mentre la terra si ritrae nel grigio
costretta nel mirino. Di là c'è la fontana
ma il pericolo sarà la grandine di piombo, il fumo delle case.
C'è un uomo con la tanica e solo la sua corsa.
il bollettino è incerto, povero Bernacca,
ecco le tue correnti dai Balcani, nel gelo che si nega
sull’Europa, mio caro colonnello.
domani che sarà? La febbre che si scioglie via dal corpo,
scossa di piuma soffiata, sciame di gocce immobili, domani
che sarà domani, occhio di belva, che sarà,
questa mia vita che sarà? Nella provvista d'acqua
si annuncia solo un passo, mille formiche pazze
e solo una promessa di bersaglio, che sarà .

2.
Come nulla si vede guardando nei tombini
aperti, così cade la vista verso il vuoto,
fuori-campo; sulla cartina Sarajevo è già l’oriente
muto, ma l’emergenza ha invece un suono,
del mondo-shock e inciso obliquo ha tutto
il farfallìo di piccoli bracieri, la fede in nulla
che sia lontano dalla strada e a questo brivido
si arrende; e nella piazza vuota al cielo
lo sguardo asciutto, lontano dai suoi liquidi, dal corpo,
dalle geminazioni e già-marcite
provviste quotidiane, misura nell’ orario
gli anni che non sono stati e il giorno livido
che va da un’alba all’altra, uguale.
Guardo luci a intervalli e penso al viaggio
quello migliore, quello di sola andata,
ma dalla fontana stavolta si ritorna.
3.
(c’è un fiume di fanghiglia, pesantissima,
sommerge, vive e soffoca, nei giorni e anni dopo
arriva nella piazza, è sporca e viva, perché è la melma
degli incendi, si raccoglie come l’acqua passiva nelle conche
tutto raccoglie e sopravvive, cresce tra muffe, bava di batteri
scura della calma, della traccia di una veglia infinita dei cecchini
che aspettano di scoprire da lontano quanto il mondo sarà piccolo.)

(clima sull’Europa, 1992, Correnti dei Balcani)

LA poesia l'ho ripubblicata in "corpi Solubili" del 2023, che chiude un ciclo, Un'era, come dicono i climatologi, le epoche climatiche hanno cicli di trent'anni. LA Storia sta avendo ora gli stessi andamenti del clima, difficilmente prevedibili o forse previsti, a ben leggerla o ricordarla.

A questa poesa ripubblicata ho fatto seguire una nota, che metto alal fine, per spiegare qualceh citazione oggi criptica, in cui tral e altrecose cito la foto di Mario Boccia che ho messo in alto. "La ragazza che corre" si intitolava. Correva dopo aver rimediato qualcosa da mangiare, per sfuggire ai cecchini o ai proiettili sparati dall'artiglieria, magari proprio in un giorno in cui non succedevana "niente di nuovo sul fronte". La foto è bella, è tragica. (anche io guardo la ragazza, aveva qualche anno meno di me, sarà viva? chissà).
Il fotografo raccomtò dopo di essersi sentito "uno sciacallo" (il teleobiettivo accumuna tragicamente cecchini e fotografi e ci parla della responsabilità delle immagini, pure necessarie).

Nota alla poesia

Poesia scritta molti anni fa, durante la Guerra dei Balcani, ispirata dai racconti di Adriano Sofri, Erri de Luca e altri, che ricevevo durante il mio lavoro radiofonico a italia Radio, da Sarajevo, in collegamento telefonico. Era in particolare il periodo tra il 1992 e il 1994. La poesia è stata pubblicata quindici anni dopo, nel 2007 in “Le ore impossibili”. torna, trenta anni dopo, co locata, con lievissime differenze, anch’essa come le prime due in apertura di libro, come scheggia, come traccia di una geologia testuale che si riconnette ad una storica, geologia o climatologia, epoche di progressivo straniamento, turbolenze, sempre come sempre. Scheggia di memoria è anche la citazione del colonnello Edmondo Bernacca
de l’Aeronautica Militare che, per decenni, dal 1957 al 1979 condusse la trasmissione quotidiana de le “Previsioni del tempo” su le reti Rai. tra le sue espressioni, per spiegare alcuni freddi invernali, c’era
anche le “correnti dai Balcani” responsabile de l’abbassamento de le temperature. Sarebbe morto in quel periodo, il 15 settembre 1993. Pochi giorni dopo, il 30 settembre, il fotoreporter Mario Boccia
scatta a Sarajevo una fotografia divenuta iconica “La ragazza che corre”. Gli abitanti della città erano costretti a muoversi di corsa per ogni attività elementare come procurarsi cibo o acqua alle fontane a causa dei cecchini che sparavano dalle colline.
Bernacca, morto da Generale, non vedrà la sua Aeronautica Militare italiana di supporto, pochi anni dopo,
nell’operazione Allied Force, la campagna di attacchi aerei portata avanti dalla NATO per oltre due mesi contro la Repubblica Federale di Jugoslavia di Slobodan Milošević, con l’intento di ricondurre la delegazione serba al tavolo delle trattative. Anche qui, il futuro che ne è seguito, nei giorni di altre guerre in Europa, ci restituiscono il senso delle stagioni della Storia.

martedì 11 marzo 2025

CARAVAGGIO 2025, UN BEL REMAKE, MA L'ORIGINALE RESTA INARRIVABILE

 


Caravaggio ritorna a Roma come una star del cinema, con la mostra “Caravaggio 2025” inaugurata il 7 marzo e che fino al 6 Luglio è ospitata alla Galleria Nazionale Corsini di Palazzo Barberini in coincidenza con l’anno del Giubileo. Curata da Francesca Cappelletti, Maria Cristina Terzaghi e Thomas Clement Salomon, ospita  24 capolavori che oggi è difficile vedere tutti assieme, con alcune primizie assolute arrivate da musei esteri, uniti ovviamente ad opere da sempre a Roma.

 Ecco allora “I bari”, dal Kimbell Art Museum di Forth Worth in Texas, così come “I musici” dal MoMa di New York, o “Santa Caterina”  del Thyssen-Bornemisza di Madrid ( venduto dall’Italia fascista nel ventennio ai loro camerati franchisti)  o “Marta e Maria Maddalena”, da Detroit. Su tutti spicca per novità  – ma certo non il picco del Merisi, in termini pittorici – “Ecce Homo”, dipinto a Napoli, secondo i curatori nel 1060-1609 finito poi in Spagna e ora di proprietà privata, attribuito a Caravaggio solo nel 2021, esposto per la prima volta in Italia. Accanto a queste opere, alcuni dei capolavori da sempre tra Galleria Borghese e la collezione del Palazzo Barberini.
Proprio questo splendido teatro barocco contribuisce all’effetto spettacolare, l’unico posto in ci si può salire ai piani superiori dalla scala disegnata da Bernini e ridiscendere da quella ideata da Borromini.

Caravaggio torna a casa, o meglio nella magione nobiliare di uno dei suoi committenti, ma 
non troverà nulla della Roma popolare che lo aveva ispirato all’arrivo da Milano nel 1592 (in un emigrazione al contrario, dalla Lombardia alla capitale, proprio come faranno Dino Risi o Carlo Emilio Gadda Alberto Arbasino, secoli dopo).
La Roma che forse poteva sopravvivere nei volti, nei corpi, fino agli anni ’50 della sua riscoperta che avvenne  – ancora per citare una rivalità dualistica tra le due capitali, del potere e della moralità – stavolta grazie alla sua città dove era nato nel 1571 e che ospitò 380 anni dopo, nelle sale di Palazzo Reale,  la celeberrima mostra della riscoperta moderna,   “Caravaggio e i caravaggeschi” nel 1951, curata da Roberto Longhi , esposizione imbattibile con i 61 quadri di mano del Merisi medesimo nonché altri 132 della scuola pittorica che a lui guardò una volta che la sua fama deflagrò nei cieli di Roma.
Diciamo che quella Mostra è il leggendario originale, questa di Roma è un remake, ottimo, ma remake di quell’inarrivabile.

Un anno prima, nel gennaio del 1950, un allievo di Longhi, Pier Paolo Pasolini, approda a Roma. Aveva sicuramente assistito nel 1942 ai suoi corsi su Caravaggio, allora poco conosciuto all’università di Bologna.
Ora, arrivando a Roma, la pittura tra Giotto e Caravaggio diventa folgorazione in carne della visione pittorica e che Pasolini poi trasporterà nei corpi e nei volti del suo cinema, dieci anni più tardi, come ha testimoniato la mostra del centenario su Pasolini del 2022, in particolare quella del ramo pittorico del suo lavoro, ospitata proprio a Palazzo Barberini ( “Tutto è santo. Il corpo veggente”) .


Tornando a Caravaggio, la stessa Galleria Corsini e tutto Palazzo Barberini sono casa, lo è ancora di più per il “Maffeo Barberini”, anzi dimora, come fu per il futuro Urbano VIII. Merisi lo dipinge ancora da prelato, (con data incerta tra 1598 e 1607) in un dipinto che Roberto Longhi attribuì a Caravaggio nel 1963  e riconosciuto come tale da tutta la comunità di studiosi, affiancato a un altro “Ritratto di Maffeo Barberini” sulla cui attribuzione si discute ancora. Il confronto e accostamento di opere che altrimenti non sarebbero mai  visibili a distanza così ravvicinata,  è uno dei punti di forza di questa mostra, e che corona il grande sforzo di ricongiungimento di queste “star” (e così come per la mostra del 1951 si mosse anche il cardinal Giovanni Battista Montini, futuro papa Paolo VI,  è indubbio che anche in questo caso il Vaticano indirettamente ha avuto un peso, se non altro come motivazione e come sforzo - anche economico economico – a cui si unisce anche la finanza di Intesa Sanpaolo).

Se la forza artistica, la rivoluzione di bellezza, l’impatto sociale e religioso di Caravaggio sono ormai evidenti a tutti e le opere parlano da sole e la sua fama pure – la quale va ben oltre le competenze delle centinaia di migliaia di visitatori già previsti per i quattro mesi di durata – si può dire con serenità che questa mostra non scopre nulla, come fece quella di  Longhi del '51,  ma appunto “mostra”, e tuttavia, indubbiamente, è  un bel mostrare.
Mostra infatti l’inimmaginabile oggi, ovvero questi 24 capolavori di Caravaggio tutti assieme e così vicini.

Visto che è la celebrazione dell'arte come ciliegia turistica, va detto che si può certo godere nell’ammirare – oltre che opere troppo lontane come alcune in sperduti musei degli Stati Uniti ora sempre più lontani dall’Europa  – come si sia evoluta la sua pittura. Come rapidamente e forse proprio grazie alla potenza fisica della Roma popolare (idealmente immaginiamo la stessa che colpi altri nordici che calarono secoli dopo),  la potenza pittorica di Caravaggio si impenni subito tra il  “Mondafrutto”  piccolo quadro della Royal Collection londinese dipinto appena arrivato nella città dei papi nel 1596  col giovanotto fruttivendolo, non dissimile dal sé stesso dipinto nel contemporaneo “Autoritratto in veste di Bacco (il bacchino malato”) della Galleria Borghese, anche questo di piccole dimensioni.
Sono opere della sezione “Debutto romano” segnato da una vita iniziale di espedienti, realizzando quadri piccoli da vendere pochi soldi.


Quella traccia di vita che esplode dal basso fu sempre l’origine vulcanica della sua forza di forme e colori e soprattutto di luci e ombre, queste ultime con quella capacità futura di “Ingagliardire gli oscuri”  che sono la seconda sezione e che prende il titolo dalla frase con cui il suo primo biografo Bellori già individua in Caravaggio, la sua capacità di far nascere la luce come dall’interno delle figure, come se estraesse la luce dall’oscurità che contraddistinguerà sempre la sua pittura. Essa si sviluppa a partire dalle prime committenze religiose, grazie al suo protettore e “agente” il Cardinal Del Monte, tra ci furono cui le imponenti tele di San Luigi dei Francesi, che per il visitatore della mostra sono imprescindibili visite complementari (al netto della precondizione che i pellegrini della gran marea giubilare ne permetta agevole visione, pellegrini ben diversi da quegli scalzi e scalcagnati “romei” che stanno inginocchiati da quatto secoli nella chiesa di Sant’Agostino, poco distante dal Senato, con i piedi zozzi in bella evidenza, davanti alla Vergine Maria, che se ne sta con le gambe incrociate da posa di “donna sfacciata” e che offre il Gesù bambino alle preghiere dei due malandati pellegrini, quando il pellegrinaggio non era overturism).

 In questa sezione Sono anche tre quadri che permettono di rivedere una delle modelle preferite di Caravaggio: sia in  Marta e Maria Maddalena, che in Giuditta che decapita Oloferne e nella Santa Catarina d’Alessandria, diversi studi identificherebbero con la cortigiana Fillide Melandroni.
Nella sezione intitolata al “Dramma sacro tra Roma e Napoli” il sangue, la violenza, la paura, sono quelli dei temi dipinti che si mescolano a quelli vissuti dal pittore, omicida di Ranuccio Tomassoni nel 1606 e poi fuggiasco prima verso i feudi Colonna (dove dipinse il capolavoro “La Cena di Emmaus”. IN questo periodo risale il Davide e Golia (ritraendosi come il Davide che decapita, auto-esposizione in cerca di espiazione). Successivamente Caravaggio approda a Napoli, qui oltre al già citato Ecce Homo, dipinge la “Flagellazione” per la cappella di San Domenico Maggiore. Siamo sempre nel suo stile tragico, come “La cattura di Cristo”. Proprio questa dimensione avventurosa viene rimarcata da questa mostra, che possiamo leggere anche come lo “Story board” di un film allegorico in cui episodi drammatici della vita dei santi e di Cristo, diventano  il racconto altrettanto drammatico di una vita personale flagellata dalla violenza commessa, dalla colpa sentita, dal desiderio di luce.

Con una sezione finale, con una citazione novecentesca, beckettiana intitolata al “Finale di Partita” siamo all’epilogo, in cui è proprio la luce protagonista del “Martirio di Sant’Orsola” dipinto nel ritorno a Napoli da Malta, ancora una volta dopo una rissa, da fuggiasco. La luce violenta e geniale è quella che sprizza dai corpi e dalle armature grigio-scure. Allo stremo della vita, riflessa in questa barocca abbacinante oscurità, che sfolgora lame di luce, taglienti quanto le spade e il senso di colpa, Caravaggio, saputo del perdono di Papa Paolo V ( Camillo Borghese) salpa alla volta di Roma. Porta con sé Il “san Giovanni Battista” da donare al cardinale nipote del pontefice e gallerista raffinato, lo Scipione Borghese che ne perpetuò la memoria.

Michelangelo Merisi morirà nel 1610 avvolto dalle sue ombre, sulla via di Roma dove non arrivò mai. Ci arrivo per suo conto solo il San Giovanni,  che fu dato a Scipione, ci arriverà e resterà a Roma per sempre anche la sua gloria, la fama della sua arte che divampa, per poi subire alterne fortune, ma che ora splende per sempre, come i corpi, simulacri eterni del suo stesso corpo mai ritrovato.


Caravaggio era morto per febbri tra le paludi, finì in qualche fossa comune, poi smantellata in era moderna. Nonostante ritrovamenti di ossa, plausibilmente attribuibili al pittore da studi chimici recenti, questa assenza del suo corpo disperso per sempre diviene un contrappasso di colpe mai estinte, ancora più forte il contrasto – come tutto in lui – tra il suo corpo disciolto in terra e sale e quei suoi corpi che - più di qualunque resurrezione vivono per sempre, immortali,  sulle sue tele.

RITORNO E RADICI, RESTARE E SPATRIARE. Su "Malbianco", di MArio Desiati (Einaudi)

 


Ci sono interessanti fili che legano certi romanzi pubblicati da poco. Il filo "Sud" mito e verità, il ritorno, la Storia, la genealogia, le radici, il rientro dallo "spatriamento" fatto da giovane, nonni e bisnonni/e ecc. CI torno alla fine, ma intanto una cosiderazione su questo ultimo "Malbianco" di Mario Desiati





Quando nell'ultima parte del romanzo del 2021 (Spatriati) il protagonista torna a casa, dopo una vita in cui era riuscito in qualche modo a emanciparsi e andare via dalla Puglia, in cui era cresciuto, non potendo esprimere se stesso al meglio, e si era trasferito a Berlino, lo faceva in quella narrazione richiamato da qualcosa di ancestrale e reale.
A me quel ritorno però non era piaciuto, l'avevo trovato (anche rispetto a come si costruisce un romanzo tra rimozione, non detto e ambivalenze) una forma di cedimento a un esotismo del ritorno alle origini. Non mi aveva convinto del tutto quel libro.
Certamente c'erano delle radici (ovviamente biografiche) in Desiati però giudicavo “culturalmente” quel personaggio come afflitto da una specie di sconfitta e di fallimento e che però cede più ad un'idea mitica del suo stesso sud che reale.
In un certo senso, è un personaggio simile apre il nuovo romanzo “Malbianco” e riparte da una crisi, meno connotata dallo spirito “del cambio di paradigmi”.
Marco Petrovici, quasi cinquantenne, dopo anni a Berlino, dove lavorava come compilatore di contenuti online (come lo capisco) accusa malesseri e svenimenti. È qualcosa di psichico e di fisico, sintomo di una vita fallimentare: per il lavoro, le ambizioni letterarie frustrate, per la fine di una storia d'amore con Luisa scultrice e donna libera che con lui viveva una relazione che di libertà e di fluidità nell'esperienza amorosa erotica. Bilancio tipico “around 50” e decisione di ritornare per curarsi a casa. E qui si fermerà.
Tutto il resto del romanzo è questo “rimanere” (una “restanza” forse in certi ambiti un po’ troppo sbandierata da ideologia alternative : sempre alla fine di Spatriati, c'era tanto d'elogio alla terra agli ulivi e alle processioni, la bella terra di Puglia, ma per questo non mi aveva convinto c’è sempre il rischio che "l’autenticità" sia un'icona superficiale).
Più semplicemente e senza sbandieramenti, quindi meglio, nel nuovo romanzo Marco il protagonista che racconta, “resta” a casa , anche perché tra i sensi di colpa se c’era il fallimento della libertà ora c’è anche il rigurgito del fallimento di aver deluso i genitori, ormai anziani. Soprattutto il rapporto è pieno di silenzio col padre Giuseppe.
Nella casa nel bosco che fu della zia Ada dove il figliol (un pochino "prodigo") e i genitori si sono trasferiti, Marco tenta di capire le sue crisi le sue fragilità e pian piano emerge qualcosa che non quadra dentro la storia familiare.
La "cosa" (il trauma muto) si lega soprattutto a un nonno paterno, della linea Petrovici, Demetrio e al fratello di lui, Vladimiro, figli, insieme a un terzo fratello morto bambino (di nome Marco) di Addolorata Petrovici , contadina e venditrice di asini, donna sola con figli e un suo cognome (ah, il “cognome delle donne”) che lavora, alleva i figli e i ciuchi. E’ libera e anomala rispetto al suo tempo (il primo ventennio del Novecento).
Marco è imbevuto di poesia e antropologia e psicologia, risale come un salmone il flusso genealogico del XX secolo, scopre silenzi, omissioni, non detti, indaga quellostrano cognome slavo, cerca dentro di sé con la terapia e negli archivi un senso “transgenerazionale” alla sua sofferenza ma pure a quella della sua famiglia, interrogherà il suo nome, la zia Ada vedova del terzo “Marco” Petrovici della storia, fratello del padre Giuseppe.
“Malbianco” ha una tensione da giallo anche se il colore prevalente è il bianco della cancellazione, del “Malbianco” (è una malattia degli alberi una specie di coltre bianca che indica il guasto biologico): Marco indaga e il romanzo nelle sue 380 pagine abbonda di dettagli e di rami di una storia-albero – lo fa per sé, forse per i nipoti per lasciare un'eredità che colmi lacune e ferite. Se dico che è come un giallo, non devo dire come finisce, ma forse posso dire il senso di questa ricerca del segreto del nonno Demetrio e del nonno Vladimiro è connesso alla seconda guerra mondiale, alla campagna di Russia (con quel cognome del resto).
Però la cosa che vorrei dire è che ci si aspetta da alcuni segnali e indizi uno svelamento che sembra “annunciato” ma tutto sommato il finale sarà altro.
Il fascino di questo romanzo è come esplora la psicologia e la genealogia, secondo una lezione che ha avviato, si può dire, in Italia Matteo Trevisani (da consigliare “il libro del sangue” Atlantide) e che pure è un metodo di indagine su sé stessi ripreso dal romanzo uscito poco prima di questo di Nadia Terranova “Quello che so di te” e che pure comporta un, se pur temporaneo, ritorno al Sud.
E’ un romanzo che partecipa di molte cose presenti nella narrativa di questi ultimi anni: storie di famiglia, e storie della “grande Storia”, in più sotto categoria ampia delle storie del Meridione ( lo fa anche Claudia Durastanti con “Missitalia”, con la Basilicata dal brigantaggio, ma molto alternativo, fino alla Basilicata del futuro).
Sono tutti romanzi sospesi tra indulgenza, visione romantica, distopica, indagine alternativa di una contro-storia, scavo psicologico, connessioni simboliche profonde dentro un inconscio collettivo che sfocia nel mito e nel magico.
In un certo senso, il fenomeno generale di successo vitalistico del sud (tra cultura e turismo) è che è un'area storico-culturale e sociale, si pone, nonostante i suoi problemi strutturali di vita quotidiana – sanità, lavoro, trasporti, servizi ecc che lo collocano sotto lo standard europeo - come l’unica terra che possa rispondere alla “crisi della presenza” come la chiamava Ernesto De Martino, quella che però un tempo, nella civiltà contadina studiata dall'antropologo, provava l’uomo di fonte alla natura che rischiava di inglobarlo, di annullarlo.
Oggi a farci sentire la crisi è il sistema globale dell’interconnessione, del mercato e del lavoro, del digitale e delle amicizie ridotte spesso a quello, della “partecipazione” ma sempre a fenomeni di massa e in un’ottica di cultura metropolitana diffusa che ci annulla come soggetti, se soggettività è anche bisogno di “originalità” di essere-qualcosa-qualcuno. Contrariamente a chi tenta questa via proprio cavalcando la cultura di massa, mettiamo partecipando a un talent, diventando un influencer, ecc, c’è una via alternativa che è la letteratura, già di suo un territorio di carta, benché “senza ordine e struttura” come il sogno.
Attraverso questo ci resta – ed è la via di Desiati e del suo MArco Petrovici - solo affidarci a ciò che è sotto-traccia, quella di essere singoli, della singolarità autentica del mio vero-io che coincide (ed è un tema centrale simbolico di Malbianco) con il mio nome-e-cognome.
Tuttavia se per far questo bisogna tornare nei luoghi oggi diventati “cartolina” – o peggio degradati come la Taranto avvelenata che copre di nero la città - il rischio è che la nostra autenticità vada a sovrapporsi (specie per chi legge) a quella “autenticità” che l’industria globale del turismo ci vende (come ha scritto Adriano Favole sull’ultimo numero de La Lettura) e ci fa ritrovare ammassati in decine di migliaia in piccoli villaggi dove “ ci si va solo con l’asino” come accade a Santorini.
LA “Restanza” descritta da Vito Teti, la sfida a rimanere e non tornare più nelle città dove si era andati “per andare via” da “spatriati” come nel libro precedente di Desiati, è adesso una sfida per i non-più-giovani come Marco Petrovici e tanti altri che lo fanno, che ora tornano per restare.
La letteratura ha il compito di mostrare che non si tratta di un “orientalismo” di ritorno anche per i nativi, che si installano in questa “amara terra” (rimorso e ritorno che parole simili) come fa Marco Petrovici che in realtà parte dal bosco delle origini, per un lungo viaggio temporale. Marco Petrovici ha bisogno di sentire nel corpo l’appartenenza, essere nel sottobosco, prima di decostruirla, perché trovando altre radici, altri fili nomadi di altri migranti, come era stato lui e dell’ultimo tipo quando era partito per Berlino, trovando altri fili di migrazione dentro il sangue della sua famiglia, Marco Petrovici approda a un’autenticità che non è integra ma fluida e piena di fratture .
Anche quella terra, quel bosco che ha conservato le memorie può bruciare, ma non importa: “il passato va ricordato ma non va restaurato” si dice Ada verso la fine. (vero: ma su questo punto non capisco il penultimo capitolo "La canzone Yiddish" come un romanzo nel romanzo che un po' contraddice questa frase che Desiati scrive, perché è come se restaurasse un passato che a mio avviso andava lasciato nella aleatorietà degli indizi e - parere personale - si poteva del tutto tagliare )
Nel suo pianto “rituale” ma indotto da più moderne e scientifiche terapie psichiatriche, la zia Ada si scioglie in una fluttuazione di ali e di versi poetici che arieggiano le ultime pagine dove Desiati nasconde il segreto e fino all’ultimo dice e non dice (che è il metodo e la parte che preferisco).
Sta a noi, come si fa con le poesie, scovarlo secondo tentativi di risposte che resteranno interiori. Come i sogni restano dentro, non sono le spiegazioni in parole che ne diamo. Non si torna nei sogni, non si può tornare a casa, la casa è altrove sempre.
L’unico luogo dove si può tornare è nel tempo bastardo, dove il tentativo di dire “chi siamo” affonda nel “ciò che non siamo” e solo questo possiamo dire (e tantomeno possiamo dici integri figli di questo sud, come ribadisce da conservatore maschio pieno di identitarismo, il fratello militare di Marco ). Il vero Sud che sta sotto la cartolina splende crudo alla luce del sole con tutti i suoi problemi. L’altro sud in cui torna Desiati e il suo Marco non è né quello dei turisti, né quello di chi ci abita e lo consegna a una cattiva politica, alle mafie, all’affarismo predatorio di tanti. È un sud che ha le radici in un remotissimo nord di neve e sembra un sogno. Lo è.

domenica 9 marzo 2025

NEL TEMPO SPEZZATO DELLA NASCITA. Nadia Terranova, "Quello che so di te" (Guanda)

 


Nel nuovo romanzo "
Quello che so di te” (Guanda) Nadia Terranova da un lato torna a inseguire i suoi fantasmi, ma dall'altro forse compie un passaggio che ne libera le energie narrative verso il futuro, esplodendo in una maturazione soprattutto stilistica.
Quello che nei primi libri era narrazione divisa tra ricerca dentro l’universo psicologico familiare e attenzione alle storie colettive di una terra
 (Messina, al cui terremoto è dedicato il romanzo che potremmo tutto sommato definire "storico", “Trema la notte”) in questo nuovo trova una fusuone e un'approriata forma stilistica, per affrontare un'indagine genealogica che si fa scavo nella Storia.

QUelle intorno alal narratrice . che qui si mett in gioco in esplicito rimando autobiografico - sono quelle che Steiner chiama "vere presenze” di una storia familiare più ampia, comessa a eventi collettivi, con i loro traumi e condizionamenti che generano ferite che diventano poi forme di una psiche, matrice di discendenze ma anche di storie.

E' una nascita che innesca tutto, quella della prima figlia della Narratrice (lasciando possibile il riflesso speculare - poi esplicitato nelle interviste e nelle prsentazioni - con la biografia della Scrittrice Terranova medesima): Guardando la figlia appena nata per la narratrice, che prende parola in prima persona,  c'è un’intuizione profonda: ora che c’è la bimba, arrivata dopo un lungo nomadismo esistenziale, a 44 anni, la madre non si può più “permettere di impazzire".
Il perché di questa affermazione perentoria non è solo una generica paura, ma ha un preciso riferimento a una leggenda familiare, tramandata dai parenti - dalal madre alle zie in poi - che Terranova riunisce in un'unicca polifonica voce detta "Mitologia Famigliare “ – con una ruolo di Coro, ma non neutro. La storia è quella della bisnonna (che la narratrice ribattezza Vénera). Questa Ur-madre delle origini, è una traccia di ricordi che passano per il filo matrilineare che sono condensati attorno a un evento: il ricovero in manicomio. "Era solo Esaurimento nervoso” dice attenuando la Mitologia, con venature di vergogna. IN relatà scopriremo che fu “internata” alla vigilia dei 38 anni per 11 giorni al Mandalari di Messina, per “Psicosi istero-nevrastenica” come recita patriarcalmente il referto che la narratrice troverà con una lunga attività di indagine. 


 


I motivi del ricovero? Aleggiano per un lungo tratto del romanzo: una caduta, la conseguente perdita di una bambina che stava per nascere, un trauma, un'accusa di esserne la colpevole disattenta? C'entrava qualcosa il marito, prima Granatiere nella pRima Guerra e poi commerciante? C'era altro oltre quegli 11 giorni? E perché così Pochi?



Molte cose si chiariranno, altre no, altre oscilerano tra verità e alea magica, dentro cui vaga questa presenza di Vénera, donna ferita e detta “stramba”, silenziosa, minuta che si presenta nell'ora ciclica di una nuova femmina che nasce, nei sogni ma non solo.

Sono intensi i passaggi in cui si aprono improvvisi squarci temporali ie la stessa Venera prende la parola, con la scoperta della cartella clinica, della “Anamnesi ,”  ed emerge con  nelle parti in corsivo, a dispetto del suo essere stata sempre un “muso cucito”  (mussu cuciutu)  nel silenzio anche in casa, così come la tramanda la Mitologia.

Anche la figlia non-nata da quelal caduta si sovrappone alla nuova nata nella culla-cratere. E qui una certa spirale della storia si spezza, proprio per rigenerarne (e raccontare) tutta un'altra. Dato che la questione del tempo, delle ere che si sovrappongono ne lrpcedere edelal scrittura, nelal flla di voci, diremo subito che se da un lato in "Quello che so di te" c'è una meccanica celeste di svelamento che - come da Edipo in poi - - è sempre un'indagine quasi poliziesca sulle origini, Terranova attua un procedimento spiralide prorpi odella scrittura stessa con frequnti passaggi di voce e posizione di sguardo, per restituire un'idea di tempo niente affatto lineare a un "romanzo" che certo non ha il procedere dritto del'Epos, ma una forma di compresenza che liberano la struttura diegetica da geometrie prevedibile a costruire un flusso d'onda, intrecci di compresenze che scivola tra reale e fantastico, tra indagine storica negli archivi e tuffo onirico

L'idea di fondo Terranova lascrive chiara:  “Scrivere è una seduta spiritica”  e questa idea la pratica in un procedere trans-realistico, tra pensieri, apaprizioni vere e proprie, sogni, traumi collettivi, dicerie. 
LA piccola nata è come un Angelo della Storia, raccoglie attorno a se memorie come detriti che si accumulano intorno e guardandola Terranova osserva cosa c'è nel vento che spira, ma quel vento soffia decisamente verso il futuro che sarà, la piccola a cui questaa storia sarà consegnata come pergamena di una liberazione non solo da una leggenda, ma si spera da una catena di conseguenze che hanno condizionato il destino di Vénera e che non era personali, ma collettive. Dalal condzione di una giovane donna nel 1928, alla forma che assumeva come pratica del sospetto e condizonamente duramete patrircale la cosiddetta scienza psichiatrica del tempo (mi viene in mente il alvor fatto sulla ginecologia fatto in un libro uscito negli stessi giorni di J. C. Oaetes, "MAcellaio"). 
 
Storia matrilineare che è anche un'esplorazione di cosa significhi per la Narratrice "maternità", tema che per altri versi sta diventando divisivo tra i femminismi contemporanei. Terranova lo fa a modo suo - sebbene non risparmi stoccate a certo determinismo da social con il perosnaggio della influencer Dok, anche se parte del romanzo che ha il sapore più di una sorta di stoccata che l'Autrice esentiva necessaria) 

In quella fluida forma da “curva” spaziotemporale dentro cui si mescola il presente della Narratrice e i diversi passati familiari, "Quello che so di te" non solo il diario di una scoperta, d i una restituzione e riscatto di una donna senza voce, ma anche il diario della metamorfosi della scrittrice. Terranova, mentre procece, di fa partecipi di come il romanzo si sta costruendo, è una forma narrativa "open source" diremmo, sul dilo di uno sdoppiamento sia psicologico con questa donna che ha sofferto, sia traa NArratrice e Autrice, in un  magma che plasma via via tutto il tempo a lei successivo e dunque è anche un romanzo di tempi che scorrono paralleli.



Pareti che – pirandellianamente, è inevitabile , il dramamturgo siciliano sta scrivendo i suoi drammi più famosi in quegli anni Venti e nel 1934 sarà premiato col Nobel -  si abbattono, in Terranova,  tra fattuale e non fattuale, attraverso un continuo entrare e uscire di voci   scavando in spazi onirici, psichici o magari magici o dentro quella di Psichiatria transgenerazionale (citando il classico del settore di Anne Ancelin Schützenberger, "la Sindrome delgi antenati") inseguendo indizi simboli e genogrammi (particolari segni-chiave dentro la semiotica di un’indagine genealogica, come in questo romanzo il numero 38). Si restituisce anche giustizia a invisibili vittime (le donne più di tutto) delle scienze tutte maschili, che si credevano oggettive e invece erano solo “assoggettanti” . Larestituzione è la forma ultima di una scrittura che in quella “seduta spiritica” lascia anche andare i morti, finalmente e forse più di prima. Lo percepisce anche la narratrice-scrittrice quando si rende conto che questa è anche una storia di padri. IN chi scrive come in chi legge apapre una scia di continuità. Al tempo stesso, in questa indagine interiore e insieme collettiva e politica, che restituisce voce a Vènera, che riscrive la sua storia, l si pongono le basi per spezzare una catena di passato e ricostruire un futuro a quella bambina che è stata origine e ultima destinataria di una storia che nel passato guarda a come si possa ripartire dal pasato per scrive quel che non è ancora accaduto e poteva accadere, insomma un futuro nella forma di un pre-dire, senza dimenticare ma senza essere prigionieri di una memoria.


TEATRO, PREMI UBU E UNA MOLTO BUONA ANNATA, SPESSO OTTIMA. (Nonostante difficoltà, tagli e incapacità istituzionali)

  Il teatro gode di ottima salute creativa, per affrontare il mare in tempesta di risorse economiche ridotte e di una costante avversione is...