******************************* da qui riprende da Facebook *******
che se poi Orban volesse far suo lo
slogan di Trump “make Ungheria Great again” dovrebbe esaltare l'impero austroungarico e
tutta quella cultura e letteratura che oggi condannerebbe proprio Orban come
una orribile marionetta, come quelle del teatro di Tadeus Kantor, o come i
protagonisti di “Le sedie” di Ionesco, tanto epr stare in area “europa
orientale”. Strano che Szalay si sia fermato a vivere in Ungheria, quando ha
mollato i suoi lavori con grandi aziende e ha deciso di scrivere. MA forse era
un buon punto di osservazione per poter
raccontare la miseria del maschilismo europeo, la povertà quasi pietosa di questa parabola di
decadenza dico Europa ma non c'è l'Europa o meglio nel suo non- esserci. nel
suo “non essere più l'Europa” sta il suo
“essere L'Europa di oggi per come la ritrae Szalay. L’Eurpa come ammasso di noi,
“i particelle elementari” per dirla con il romanzo di Houellebecq, che mi
sembra un modello imprescindibile come scrittura per Szalay, che si colloca in
quella eredità della disfatta, eredità del dissolvimento di tutte le “illusioni
della libertà” della individualità come possesso della propria vita, e con esseri
umani maschi etero occidentali che precipitano.
Sono personaggi che spesso nemmeno la ricordano però quell’Europa, adesempio i
ragazzi dell’apertura del libro Simon e Ferdinand, non ricordano “l’Europa del
Muro” mentre approdano a Berlino sedicenni, non sanno nulla del muro però
ricordano Eliot il suo Aprile crudele, il suo “melodioso pessimismo”.
Come loro in “Tutto quello che è un uomo” i personaggi son “senza un dove”, senza un dove vorrei essere, senza un’Europa ridotta a cartoline sbiadite, a percezioni di un vissuto degenerato,
esperito tra i 16 e i 73 anni, con un’unica
domanda “che cosa ci faccio qui?” che è una domanda che fu di un di un grande
sognatore europeo Bruce Chatwin, che vagava per il mondo nomade, forse con quel
tanto di inevitabilmente attitudine esotista, o coloniale, si direbbe oggi, ma
che era il tempo stesso il sogno di un progresso, di un'espansione vitale
(mentre L'Europa del maschio depresso che piomba nel proprio inghiottimento
privativo è proprio l'Europa che ha assorbito in sé, fino a farsi crocifissione,
quell'accusa di soggettivismo, forse
superomismo espanso)
L'Europa appare ora a Ferdinand e Simon e i due sedicenni a
Berlino come una sequenza di statue bianche di pietra come le vedono in un
monumento, che fanno un po’ tutto: molestano donne lottano scrutano l'orizzonte,
ma ciascuno congelato in un “gesto di smania oscura”.
E tuttavia in quella smania c'era il bene e c'era il male,
ora c’è solo un moto perpeturo e circolare, a vuoto, che anima questo movimento
disperso di sonnambuli e zombie in Europa ed è “ pensate a divertirvi”, il
motto degli anni ’90 invecchiati mle : “Have fun”
L'Europa come appare sul lugubre Ponte Carlo di Praga, con le statue annerite e i turisti ciabattoni
che si agitano e con Simon che sentenzia che “quel posto è una Disneyland
senz'anima” e “ come fa un turista a essere felice sempre a girare sempre senza
niente da fare è alla ricerca di qualcosa”.
ma questa condizione
di turisti non è solo la condizione di chi è in vacanza ma è la condizione di
chi è “vacante” tutto il tempo, e quel vuoto compone queste brevi vite infelici
di turisti della storia.
“Tutto quello che è un uomo” libro fatto di racconti in cui quello che
predomina è proprio la struttura della sottrazione, la capacità di saper far
parlare il” non detto” nella scrittura, in questa mancanza in questa frattura e ferita
del linguaggio, in questo impoverimento trasparente,
in questo neutro.
Un “neutro” mortale che sta intorno a ciò che è scritto, che non è bianco è
semplicemente neutro: c'è la forza stilistica di questo romanzo la sua capacità
di comporre con il niente quel qualcosa che continua ad essere la letteratura,
come se da questo ungherese di seconda generazione cresciuto nel cuore di un
impero che stava decadendo, e nel suo decadere pensò nene di uscire dall’Europa,
come ha fatto appunto la Gran Bretagna in cui è cresciuto Szalay, come se questo non-europeo che non ha un suo
dove né in Canada, né in Gran Bretagna né in quell’Ungheria da dove viene suo
padre, che vive un triste passaggio tra
la dittatura durante il 900 e l'autoritarismo del ventunesimo secolo diventando
quasi un modello mondiale di questa deriva, ci dicesse qualcosa di questa “gloriosa
povertà”, di questa epica della
privazione che stiamo vivendo e che Szalay racconta, in cui in un contesto così bruciato povero di
cultura così povero di profondità, con i personaggi che dicono quasi sempre il
più delle volte “Okay” che appunto
l'imitazione grottesca del “sì” di Molly Bloom e di Nietzsche, è come se ci stesse dicendo che quello che ci
è rimasto è la cosa più alta, il bene più prezioso dell’Europa e al tempo
stesso il più inutile: la letteratura
Nella “non speranza” ciò che “resta” è ciò che scorre il grande patrimonio dell'umanità e la sua capacità di percepire che quello che resta è quello che è qui, fosse anche solo pura materia.
In realtà la materia di cui è fatto “l'uomo” tutto quello che è un uomo è il tempo, che però non esiste se non nella eterna percezione di un impermanenza. Ma proprio il fatto di finire in ogni momento è ciò che “non finisce mai”, e fosse anche questo “mai” (cosa familiare appunto a Kafka) una pena infinita, una “condanna”.
Ci dobbiamo collocare dentro questi paradossi così come la nostra materia infinitamente piccola, nelle particelle, si colloca nei paradossi della fisica quantistica che ci ricorda il nostro essere qualcosa e al tempo stesso non esserlo, che è proprio della cosa osservata così come dello sguardo dell'osservante. Noi, io, maschio etero biuanco europeo occidentale, di una certa età.
